Basta con il mito romantico del Sud, è ora che i meridionali si prendano le loro responsabilità

Il Mezzogiorno deve chiedere poche ma chiare cose a Roma: lotta alla criminalità organizzata, interventi per pubblica amministrazione e giustizia, investimenti in istruzione, infrastrutture e digitale

Ho letto l’intervista a Pino Aprile pubblicata su Linkiesta qualche settimana fa. Inizialmente mi son trovato d’accordo con il titolo, perché rappresenta l’opinione prevalente che mi ero fatto parlando a più riprese con i miei conterranei prima e dopo le elezioni del 4 marzo. Poi ho letto il resto. Se il Sud vuol basare il suo riscatto su tali premesse, è senza dubbio spacciato.
Aprile prova a dare una giustificazione storica, economica e morale al voto che ha premiato il Movimento 5 Stelle, peccando però di eccessiva partigianeria meridionalista. Ma vediamo i punti cardine del suo ragionamento e le relative lacune.

Il saccheggio
Viene posta in primo piano la tesi del saccheggio a danno del Mezzogiorno che si sarebbe perpetrata dal 1861 ad oggi. Si tratta di una tesi che incontra molti consensi, perché è figlia di una reazione di orgoglio del Sud dopo tanti anni di propaganda leghista anti-meridione. Una propaganda che ha contribuito a creare un astio infra-nazionale di cui non riusciamo a liberarci. Ma reagire alla propaganda con altra propaganda non ha molto senso. Innanzitutto forzare la ricostruzione storica risorgimentale non conviene a nessuno.

La letteratura della storia economica è abbastanza ampia per poter affermare che c’erano già delle differenze tra Nord e Sud all’Unità (in favore del primo), ma è altrettanto vero che dopo l’unificazione i divari si sono allargati rispetto alla situazione preunitaria, senza più riuscire a rimarginarsi. Discutere di storia fa sempre bene, ma pensare che il ritorno ad una situazione preunitaria potrebbe migliorare la condizione del Mezzogiorno rappresenta una mera illusione, priva di fondamento. Sarebbe ora di guardare avanti, non indietro.

Il dibattito sulla spesa pubblica
Passando ai giorni nostri, Aprile si avventura in una guerra di cifre Nord-Sud. Non è l’unico, il dibattito è sempre vivo. Ad esempio sia Emanuele Felice sia Gianfranco Viesti hanno ricordato recentemente su Il Foglio alcuni numeri sulla più alta spesa pubblica pro-capite di cui godono i cittadini settentrionali, da tenere a mente per confutare tanti luoghi comuni. Ma come si fa dall’altro lato ad ignorare lo scarto in termini di residuo fiscale a danno delle Regioni del Nord? A chi conviene questo gioco al massacro sui numeri? Unicamente ai venti secessionisti, che difficilmente portano a buone cose.

Intendiamoci, è giusto che i rappresentanti di un territorio facciano sentire la propria voce nelle difficili trattative per l’assegnazione delle risorse. Si avvicinano tempi importanti per l’attuazione del regionalismo differenziato reclamato da Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna, ma per affrontare al meglio le nuove sfide dell’autonomia non si può prescindere da una fedele rappresentazione della realtà.

Discutere di storia fa sempre bene, ma pensare che il ritorno ad una situazione preunitaria potrebbe migliorare la condizione del Mezzogiorno rappresenta una mera illusione, priva di fondamento. Sarebbe ora di guardare avanti, non indietro

Le accuse sulla ripartizione dei fondi
La narrazione si dimostra in alcuni passaggi priva di riferimenti precisi. Ad esempio, sostiene Aprile che «Sapete come vengono calcolati i finanziamenti per la manutenzione stradale nelle città? Non in base ai chilometri o al numero delle auto che le percorrono. Ma in base al numero dei dipendenti di aziende private sul territorio. E così Napoli, che ha il doppio delle strade rispetto a Milano, riceve la metà dei fondi». Dovrebbe indicare a cosa fa riferimento, perché secondo la ripartizione 2018 – avente natura pluriennale – andranno a Milano € 34.452.785,82 mentre a Napoli € 38.928.585,74.

Secondo lo schema di decreto i criteri di assegnazione sono: a) consistenza della rete viaria; b) tasso di incidentalità; c) vulnerabilità rispetto a fenomeni di dissesto idrogeologico. Un altro esempio sugli asili, con riferimento ai quali Aprile sostiene che «E i finanziamenti per gli asili nido? Vengono garantiti in base al numero degli asili già presenti. Così si aiuta chi ha già le strutture, ma non chi ha più bambini». Si legge invece, almeno relativamente all’ultima assegnazione da 209 milioni di euro, che i fondi sono ripartiti secondo tre criteri: «-per il 40% in proporzione alla popolazione di età 0-6 anni, in base ai dati Istat;
-per il 50% in proporzione alla percentuale di iscritti ai servizi educativi al 31 dicembre 2015;
– per il 10% in proporzione alla popolazione di età 3-6 anni, non iscritta alla scuola dell’infanzia statale, in modo da garantire un accesso maggiore».

Essendo un personaggio noto e popolare, Aprile dovrebbe mostrare più precisione nelle sue uscite pubbliche, citando fonti o indicando i provvedimenti legislativi e amministrativi a cui fa riferimento, altrimenti si confonde il lettore, si alimenta l’astio e si perde in termini di credibilità quando vi sono battaglie politiche da portare avanti.

Le responsabilità locali
Dall’intervista di Pino Aprile sembrerebbe poi che le classi dirigenti locali non abbiano alcuna colpa
, essendo tutte le responsabilità dello status quo ascrivibili allo Stato centrale. Si tratta di una raffigurazione distorta rispetto alla situazione reale, tipicamente utilizzata da chi non ha voglia di risolvere i problemi che attanagliano un territorio, continuando a dare la colpa di tutti i mali a fattori esogeni. Si dimentica, ad esempio, che i miliardi dei fondi europei per le aree sottosviluppate del Mezzogiorno vengono gestiti in prevalenza dalle Regioni. Come ricorda Felice nel pezzo citato «Diverso è il caso dei fondi europei, che altrove in Europa sono stati volano di sviluppo, ma non per le nostre regioni che non ne hanno evidentemente saputo intercettare le potenzialità».

Non riflettere sulla qualità di gestione della spesa rappresenta un grave limite da riconoscere per essere credibili nella richiesta di risorse, come ricorda lo stesso Viesti: «Certamente lo scarto dipende anche da una gestione delle risorse disponibili che è spesso di qualità inferiore. Riconoscere errori e mancanze è importantissimo per migliorare: spesso il sud è poi a macchia di leopardo (ce lo dicono i dati: nella scuola, nella sanità, nella raccolta dei rifiuti): sottolineare le differenze è cruciale». Su questo tema fondamentale non vi è traccia nell’intervista di Aprile.

Le aspettative sul reddito di cittadinanza
Infine, l’aspetto più disarmante riguarda l’opinione di Aprile sul reddito di cittadinanza: «Se tantissimi usufruiranno di questa misura al Sud, non è certo per scelta loro. Ma perché, per tutto quello che abbiamo già detto, dopo anni di saccheggio oggi si trovano in quella condizione. Forse con il reddito di cittadinanza i giovani potranno rimanere qui, senza essere costretti a trasferirsi al Nord».

Occupandomi del tema , mi sono reso conto che la confusione regna sovrana, a partire dal nome prescelto. L’unica misura che potrebbe essere utile è un reddito minimo garantito, in primo luogo per chi si trova in situazione di povertà assoluta, verificando poi se si possa estendere per chi si trova in situazione di povertà relativa. Invece si continua a spacciare la misura come un antidoto alla disoccupazione giovanile, senza mai spiegare il perché. Anche Aprile inciampa su questa leggenda circolante.

Cosa facciamo per chi è disoccupato ma vive in nucleo familiare al di fuori della soglia di povertà relativa? Cosa facciamo per il neolaureato che non ne ha diritto? Come si “creano” le offerte lavorative per uscire dal beneficio? Sarebbe questo il piano per bloccare l’esodo? Dare un po’ di reddito per acquistare più beni prodotti al Nord? Come ci ha insegnato il premio Nobel Angus Deaton, l’assistenzialismo fine a sé stesso non fa altro che avvantaggiare il potere delle élite locali, mantenendo il popolo in una condizione da minima sussistenza, senza apportare alcun
beneficio alla causa dello sviluppo.

Conclusioni
Il Sud dovrebbe chiedere poche cose allo Stato centrale, ma con la dovuta convinzione: lotta alle criminalità organizzate e per la legalità, interventi volti a migliorare l’efficienza della pubblica amministrazione, della giustizia, atti a ridurre il digital divide, investimenti in istruzione e università, infrastrutture, accessibilità, diminuzione del costo del credito. C’è un ritardo sulla produttività totale dei fattori da ridurre, per non vanificare il lavoro di chi vorrebbe investire e produrre nel Mezzogiorno e per non far scemare le buone notizie sulla dinamicità dei giovani imprenditori meridionali che fuoriescono dall’ultimo rapporto di Intesa San Paolo sui distretti industriali.

Per quanto riguarda il livello politico locale, iniziamo a distinguere le esperienze amministrative positive da quelle negative, senza inutili generalizzazioni, ben consapevoli del fatto che occorrerà in qualche modo ribaltare i potentati locali che impediscono il raggiungimento di una crescita inclusiva. In questo processo, mai sottovalutare l’importanza delle istituzioni, come ampiamente argomentato da Acemoglu e Robinson.

La cosa peggiore da fare è cercare di minare ulteriormente la coesione nazionale, spacciando mistificazioni sull’asserita incompatibilità antropologica tra le diverse aree del Paese. Si spera che le forze uscite vincitrici dalle ultime elezioni non cadano nel tranello dei partigiani neoborbonici o neoasburgici, nostalgici di una belle époque del tutto immaginaria e deleteria per le sfide che ci attendono.

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