4 Luglio ciao ciao: il sogno americano è diventato un incubo (e non è solo colpa di Trump)

L'elezione e le politiche di Trump hanno conciso con la fine della retorica sulla terra delle opportunità dove tutto è possibile. Ora gli Usa sono il Paese dei bambini in gabbia e dell'ascensore sociale bloccato, in cui l'unico obiettivo sembra di tornare a piacere a se stessi

The Unsplash, Aaron Burden

Si sognava la California, ma anche New York, e «me ne vado in America» era più di un modo di dire perché tantissimi le valigie le facevano davvero. Born in the Usa. Il patriottismo amaro di Bruce Springsteen dopo quello libertario di Easy Rider e il taxi driver che chiede allo specchio: «Dici a me?». L’America di Tony Manero, che rinuncia al premio della gara di ballo in favore della coppia discriminata perché messicana, e di Arturo Bandini, e di tutti gli zii d’America quindi anche di Alberto Sordi – Arrivano i dollari! – e dell’intera provincia italiana che sognava la turista americana, il poliziotto americano, l’hamburger americano che in Italia (almeno a Roma) arrivò solo a fine anni ’80, in piazza di Spagna, preceduto da polemiche di fuoco in difesa del local food, dell’amatriciana e della pajata.

Oggi 4 luglio vengono in mente tutti i 4 luglio cinematografici – specialmente quello di Forrest Gump e del Grande Gatsby, così diversi e così ammalianti, tutti e due – e la domanda è: c’è ancora questo sogno americano? Dove resiste? I nostri expat traslocano, per la metà, in Europa. Un’altra quota consistente sceglie il Sud America. Il Nord America è scivolato in basso nelle classifiche, appena sopra a posti assai più complicati come gli Stati asiatici, africani e addirittura l’Oceania. Sogniamo Londra e Caracas assai più che Los Angeles o Boston. L’altra faccia dell’America First è appunto questa: la fine della retorica sulla terra delle opportunità e del tutto-è-possibile: un racconto col quale gli Usa, per un secolo, hanno ammantato di velluto il volto spesso crudele della superpotenza militare, economica, sociale.

L’American Dream, spiegano le definizioni ufficiali, non è solo «un sogno solo di automobili e salari alti» ma l’idea di un di ordine sociale in cui ogni uomo e ogni donna, a prescindere da razza, nascita, censo, posizione, relazioni, potranno «raggiungere la massima statura di cui sono intrinsecamente capaci». La letteratura ci dice da un pezzo che questo sogno è finito, che questo immaginario collettivo non esiste più. Né in America né fuori. Anche la politica se ne rende conto almeno da un decennio. Nel 2006, in avvio della sua fortunata campagna, Barack Obama dedicò alla faccenda un saggio molto letto, The Audacity of Hope, praticamente un manuale per il «recupero del sogno americano» (come era scritto nel sottotitolo) e lo collegò al simbolico del presidente ballerino, il presidente amico delle star, il presidente che canta Sweet Home Chicago con BB King e Mick Jagger, insomma allo star system americano e alla sua innegabile forza evocativa di stagioni migliori.

Ora che l’America appare sulle nostre tv con i video dei bambini messicani in gabbia, simili operazioni simpatia sarebbero improponibili. Donald Trump ha rinunciato a piacere al mondo, sa che l’America libertaria che affascinò l’Europa è finita per sempre (e comunque non era roba sua). Si accontenta di piacere agli americani, è a loro che sta vendendo la versione 2.0 di Miracolo sulla Quinta Strada: un Paese che torna grande mostrando i muscoli e cacciando l’invasore

Ora che l’America appare sulle nostre tv con i video dei bambini messicani in gabbia, simili operazioni simpatia sarebbero improponibili. Donald Trump ha rinunciato a piacere al mondo, sa che l’America libertaria che affascinò l’Europa è finita per sempre (e comunque non era roba sua). Si accontenta di piacere agli americani, è a loro che sta vendendo la versione 2.0 di Miracolo sulla Quinta Strada: un Paese che torna grande mostrando i muscoli e cacciando l’invasore, una Hair al contrario dove i poliziotti a cavallo invece di danzare nel parco caricano gli irregolari e li mettono in galera.

In questa Hair al contrario non c’è Woodstock ma il Burning Man Festival, 450 dollari a biglietto. Il mito della Route 66 è sostituito dal raduno di Coachella, fra i 500 e i 900 dollari solo per entrare. L’on the road è quello della Silicon Valley, muri alti sei metri e guardie armate per tenere fuori la plebe. La Gig Economy ha rovesciato come un calzino l’ideologia delle opportunità trasformando il mercato dei servizi in una fabbrica delle Piramidi senza volto: Ray Kroc, il fondatore di McDonald’s partito come rappresentante di frullatori porta a porta, oggi sarebbe un fattorino di Amazon, non avrebbe mai visto in faccia né i suoi clienti né i suoi padroni e non si sarebbe inventato un bel niente. Gli studi ci dicono che la percentuale di ricchezza detenuta dal supervertice della scala sociale (il famoso 0,1 per cento) è raddoppiata dagli anni ’80 a oggi. Fra i 50 Paperoni delle statistiche di Forbes almeno un terzo ha ereditato la fortuna che detiene.

Insomma, non sono solo i bambini messicani in gabbia o l’evidente offensiva di Trump contro l’Europa, ad aver stropicciato il sogno americano fino a renderlo invendibile all’estero ma anche dentro i confini. È anche tutto il resto, e ci dispiace perché alla fine non abbiamo neanche un sogno alternativo, un’altra frontiera verso la quale dirigerci anche solo con la fantasia: dire «Me ne vado a Toronto». «Me ne vado a Francoforte», «Me ne vado a Pechino», non è la stessa cosa che dire «Me ne vado in California».

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