La verità sul congresso Pd: Zingaretti ha una strategia, Renzi nemmeno un’idea

«Non vi siete liberati di me», minaccia l’ex segretario dem. Ma senza un candidato, senza alleati e senza idee la battaglia uno contro tutti non può funzionare. E il presidente del Lazio ha la strada spianata

«Pensano di essersi liberati di me, ma si sbagliano». A chi si riferiva Matteo Renzi quando ha pronunciato queste parole alla Festa de l’Unità di Firenze? Se pensiamo al fatto che il ritrovato protagonismo del senatore di Scandicci è coinciso con il periodo in cui le Feste, tradizionalmente, ospitano il segretario in carica, verrebbe da pensare che quelle parole erano rivolte in primo luogo ai suoi compagni di partito. La presenza di Renzi a Firenze, alla stessa ora in cui, a Ravenna, Maurizio Martina chiudeva la Festa nazionale, non può essere considerata casuale. E non lo è. L’ex premier dirà poi che si riferiva a Salvini e Di Maio, ma sa bene anche lui che ogni sua parola viene ormai letta anche in chiave interna.

Già, perché il dibattito precongressuale, nel Pd, non può essere considerato come una normale situazione di confronto politico. Ormai da mesi, anche prima del 4 marzo a dire il vero, assistiamo a una psicodramma, che, ciclicamente, assume il contorno della scissione, del nuovo partito, del nuovo nome, della guerriglia e chi più ne ha più ne metta. Il protagonista assoluto di questo far west politico è senza dubbio Matteo Renzi, il leader attorno al quale ruota il destino di un’intera comunità.

«Matteo – ci racconta un ex parlamentare dem non rieletto, ma sempre vicino al mondo renziano – ha ancora tanto rancore. Gli attacchi che ha ricevuto dall’interno lo hanno rovinato, su questo non possiamo che concordare con lui. Fosse per lui, lo schema dovrebbe continuare ad essere uno contro tutti, confidando nel fatto che molta gente sta ancora con lui. Come una sorta di Trump in salsa dem, vorrebbe radicalizzare lo scontro per massimizzare il consenso. Il problema vero – conclude – è che tutto questo non lo può più fare. E questa cosa lo sta facendo diventare matto».

Renzi ha già detto che non si ricandiderà alle primarie (non può rinnegare se stesso per la terza volta, sarebbe ridicolo oltre che politicamente inaccettabile) e in ogni uscita pubblica continua a ripetere che non farà, a chi vincerà il congresso, ciò che è stato fatto a lui. Salvo poi scatenare un fuoco di fila da parte del suo esercito di parlamentari contro Nicola Zingaretti, colpevole – a precisa domanda – di aver risposto, nel corso di un’intervista, che il suo punto di riferimento politico non è Macron ma un tipo di partito più popolare e meno elitario. Apriti cielo. In poche ore è partita una raffica contro il governatore del Lazio, manco fosse il traditore della patria.

A Renzi, in questo momento, manca tutto. Manca il candidato, che a questo punto potrebbe essere chiunque. Manca l’approdo politico, se non un vago riferimento ad una vocazione maggioritaria mai così impraticabile. Manca una linea. In questo senso, le continue “minacce” sulla falsa riga del “torneremo presto”, “senza di noi il Pd muore” o “non vi liberete tanto presto di me”, suonano come un messaggio sempre più vuoto e inconsistente

Un episodio sintomatico di ciò che sta succedendo nel Pd. Dove, in vista del congresso di cui ancora non si conosce la data, abbiamo un candidato, Zingaretti appunto, che almeno ha il pregio di aver indicato una strada da seguire, giusta o sbagliata che sia, e un non candidato, Renzi, che deve ancora decidere la sua strategia, dalla quale dipende gran parte del futuro del partito. In mezzo c’è Maurizio Martina, che non ha ancora sciolto la riserva su una sua eventuale ricandidatura, ma che le punzecchiature di Renzi (e soprattutto dai renziani, con cui il feeling non è mai scattato) stanno inesorabilmente avvicinando al presidente della Regione Lazio. Come d’altronde sta succedendo con i vari Gentiloni, Minniti, Franceschini. E, dicono i più critici, potrebbe finire per succedere anche con Graziano Delrio, sempre meno a suo agio nel gruppo dei supporter renziani senza se e senza ma.

Mentre Renzi deve ancora decidere cosa fare da grande, Zingaretti si sta organizzando, ormai da mesi, per l’appuntamento congressuale. La rete che sta costruendo è stratificata e ben radicata. Va dai big del partito agli amministratori locali (tra cui Beppe Sala), dal mondo dell’associazionismo cattolico ai sindacati, dalle realtà civiche alla sinistra. Con un obiettivo preciso: prendersi il partito, porre fine all’epoca renziana (mai veramente archiviata) e cambiare l’impostazione politica del Pd, a partire dal dialogo con quella parte di Movimento Cinque Stelle che non accetta di “morire” salviniana.

Invece a Renzi, in questo momento, manca tutto. Manca il candidato, che a questo punto potrebbe essere chiunque. Manca l’approdo politico, se non un vago riferimento ad una vocazione maggioritaria mai così impraticabile. Manca una linea. In questo senso, le continue “minacce” sulla falsa riga del “torneremo presto”, “senza di noi il Pd muore” o “non vi liberete tanto presto di me”, suonano come un messaggio sempre più vuoto e inconsistente. C‘è chi dice che solo un uomo, in questo momento, potrebbe mettere ordine nel campo renziano e portare avanti le idee liberali nel Pd. Parliamo di Carlo Calenda, l’unico vero possibile rivale che possa impensierire Nicola Zingaretti al Congresso. «Il problema – ci spiega una fonte parlamentare dem – è che Calenda è autonomo e difficilmente assoggettabile alle logiche ferree della corrente renziana. In più è letteralmente detestato da buona parte dei fedelissimi dell’ex premier». Con buona pace delle suddette idee liberali. Ecco spiegata, in poche parole, la crisi nera del renzismo.

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