Strane produzioniSorpresa, scopri perché Eros Ramazzotti è l’orsetto Wombat della musica italiana

Arriva il nuovo disco di Eros, “Vita ce n'è”. Presentato in pompa magna. Distribuito in 99 paesi. Ebbene, c’è una innegabile similitudine morfologica tra il prodotto di Eros e quelli della simpatica specie australiana di orsetto

Un prato.

Un ragazzo che tira sassi contro una capanna di legno, forse abbandonata.

Un sasso.

Poi un altro.

Poi un altro ancora.

Poi l’attenzione del ragazzo viene colpita da qualcosa che è in terra, in mezzo ai fili d’erba. Qualcosa che non possiamo vedere.

È un orecchio. Un orecchio mozzato. In putrefazione. I vermi che pasteggiano di quella carne che un tempo era viva.

Partiamo da un dettaglio, come in una delle prime scene di Velluto Blu di David Lynch, appunto.

Siamo al Castello Sforzesco. Nell’antica Sala della Balla dove, tra drappi d’epoca e strumenti risalenti a secoli addietro si sta per compiere un gesto apparentemente fuori contesto, rilanciare oggi, nell’epoca della musica neanche più liquida, direttamente vaporizzata, tra streaming e app, la carriera un po’ opacizzata di un cantante di mezza età. Al suo fianco, al fianco del cantante di mezza età, un signore nato prima dell’inizio della seconda Guerra Mondiale, uno che ha fatto la storia della nostra televisione. La televisione, corrispettivo di un clavicembalo o di un oboe in legno d’ebano oggi, coi ragazzini per i quali è inscenato questo rilancio che non sanno cosa significhi la parola “palinsesto”, troppo abituati a star lì con gli occhi fissi allo smartphone.

Siamo lì, sono lì, perché chi scrive ha deciso di seguire la faccenda come si usa oggi, dai social, così da poter tenere d’occhio anche il vero evento del giorno, l’intervista di Marracash al sindaco Sala, all’interno della Milano Music Week. Sono lì e a aprire le danze è il presidente della major per cui l’artista di mezza età sta per pubblicare il suo nuovo album. Sarà per quel frastornamento che la perdita di un punto di riferimento non può che lasciarti addosso, lui così appassionato di supereroi da poco “orfano” di Stan Lee, perché quando, nel presentare l’artista di mezza età sul procinto di pubblicare l’album del suo ritorno gli sentiamo dire “Vita ce n’è è il primo album di un artista italiano a uscire in cento paesi al mondo” rimaniamo quantomeno spiazzati. Forse anche sconcertati. È un dettaglio certo, un orecchio mozzato in un prato. Ma un dettaglio non da poco.

Noi maschi, del resto, siamo fatti così. Fatichiamo a convivere con la medietà, con la normalità. Nessuno di noi, tutti abbiamo passato del tempo a ritirare la pancia davanti a un fotografo, ammetterebbe mai di avere un cazzo di meno di venti centimetri. Senza per altro aver ben capito da dove si debba prendere questa misura, quale sarebbe la famosa elsa di cui parlava Henry Miller nei suoi scritti parigini. Quei cento paesi sbandierati come un’erezione potente, ecco, suonano come i venticinque centimetri di cazzo esibiti a parole con gli amici, gli abiti ovviamente addosso.

I paesi in cui escono gli album internazionali, non solo quelli italiani, sono circa sessanta. Sessanta su centonovantasei complessi, dando per assodato che buona parte dei paesi africani e asiatici non rientrino in questa fetta di mercato. Dire cento paesi è un po’ come autoproclamarsi eredi di John Holmes, avendo invece qualcosa di molto normale nelle mutande, forse anche qualcosa di un po’ meno che normale.

Perché partire da un dettaglio apparentemente insignificante, magari un semplice scivolone del presidente, per raccontare di questa uscita discografica? Perché la mia esperienza di critico pigro che ha provato a seguire l’evento di rilancio di Eros Ramazzotti, è lui l’artista di cui si sta parlando, è praticamente finita qui. Presto fagocitata dall’intervista del rapper della Barona al sindaco di Milano, e soprattutto dalla mancanza di materiale nei social. Duecentoventisei Tweet in tutta la serata, per lo più da parte di Radio Italia, media partner dell’evento. Evento, e poi passo a parlare del disco, patrocinato dalla SIAE, diretta da Mogol, autore di un brano in compagnia del suo solito sodale Mario Lavezzi, Mogol padre di Cheope, autore di altri brani in scaletta. Benvenuti in Italia, o altri novantanove paesi in cui il disco Vita ce n’è sta per uscire.

Sentito il disco su Spotify dopo la mezzanotte, e provato quel senso di imbarazzo misto a quella morbosa forma di meraviglia che si prova nei confronti delle cose brutte

Mettiamo da parte le esagerazioni della presentazione.

Mettiamo anche da parte l’idea balzana di chiamare Pippo Baudo a presentare un album che dovrebbe scalzare dalla vetta della classifica Salmo, cioè andare a competere con uno che in una settimana ha raccolto ottantacinque milioni di streaming, giocarsela coi pischelletti, in sostanza. Di più, Pippo Baudo in una sala fatta di drappi e strumenti antichi del Castello Sforzesco, non esattamente la cosa più vicino al 2018.

Mettiamo da parte tutto e concentriamoci su Vita ce n’è.

Concentriamoci.

Fosse facile.

Di notizie sul disco, in rete, se ne reperiscono poche. I pochi che hanno raccontato la presentazione hanno parlato prevalentemente del fatto che Eros ha votato Cinque Stelle. Complimenti, per altro, ottima scelta. E del fatto che non c’è la nuova Più bella cosa, buon per Guidetti che continua a incassare soldi da quella stessa SIAE. A spulciare un po’ meglio si evince che l’idea di chiamare a se i poeti della nostra musica italiana deve aver funzionato pochino. Perché se l’altra volta c’era quel parterre fatto di Bianconi, Pacifico, Zampaglione, Kaballà, Mogol, stavolta si è fatto largo ai giovani. Quindi Cheope (no, scherzo, Cheope era giovane trent’anni fa), Bungaro e Chiodo (idem). Riparto, stavolta si sono chiamati autori solidi come Cheope, Bungaro e Chiodo, e poi si è puntato su un manipolo di giovani, tipo Federica Abbate, Paolo Antonacci, figlio di Biagio, Fortunato Zampaglione (autore di buona parte dei successi di Mengoni e di colui che in un articolo su Ramazzotti non andrebbe mai nominato, Andrea Bocelli), Dario Faini (che non è giovane, ma è una garanzia quando scrive), Tommaso Paradiso, quello dei Thegiornalisti, Enrico Nigiotti, Fabio Gargiulo, Matteo Buzzanca, Edwyn Roberts. Anche la produzione è affidata a un giovane, Antonio Filippelli, forte della produzione di Levante eccolo qui a accompagnare Eros nel suo rilancio internazionale dopo il bagno di sangue degli ultimi due lavori.

Se dico che cerco le notizie in rete un motivo c’è. Anche semplice da raccontare. Giorni fa, nel raccontare della imminente morte della discografia ho sottolineato come il primo singolo eponimo (Eros, per eponimo intendo che regala il titolo all’album, niente di offensivo) fosse presto scomparso dalle classifiche, articolo che aveva il nome di Eros nel titolo e una foto di Eros come copertina, è successo il patatrac. Niente di grave, ci sono abbastanza abituato. Solo che sembra Eros se la sia presa, o così almeno mi ha lasciato intuire il suo manager Gaetano Puglisi nel momento in cui mi ha chiamato per rimettermi in riga, reo di non essere stato cortese nei confronti di chi con me era invece stato carino. Di cosa parlo. Mesi fa ho lanciato una campagna di crowdfunding piuttosto provocatoria con Musicraiser, e Eros ha aderito mettendo all’asta per me una sua maglietta. Con lui altri centosettantré artisti, da Vasco a Zucchero, da Ligabue a Caparezza, a Giorgia, alla Mannoia. Insomma, centosettantatré. Evidentemente, mi lascia capire il manager vomitandomi addosso parole di scarsa stima nei miei confronti, il sottinteso era che in cambio di quella maglietta io stavolta avrei parlato bene di Eros. A prescindere da quel che avrebbe fatto. A prescindere da quel che sarebbe successo. Sono un ingrato e sono poco cortese, mi viene detto, ma per fortuna mi leggono solo, vado a memoria, quattro cerebrolesi, voi.

Per questo, per l’aver osato sottolineare come il singolo di Eros sia andato malino, presto scomparso dalla classifica, mai apparso su Spotify, sono magicamente uscito dalla comunicazione dell’ufficio stampa, la Goigest di Dalia Gaberschik, che magicamente ha continuato a mandarmi la propria newsletter, epurata dalle mail su Eros.

Così, sentito il disco su Spotify dopo la mezzanotte, e provato quel senso di imbarazzo misto a quella morbosa forma di meraviglia che si prova nei confronti delle cose brutte descritte tempo fa in un articolo sul singolo che ha visto insieme Elisa e De Gregori, per poter sapere cosa c’è nel disco prima che il disco esca, mi ritrovo qui, a navigare. Cazzo, mi dico, se questo è il nuovo Ramazzotti, quello che sta per invadere i 100 paesi del mondo, impresa unica al limite del fantascientifico, quello vecchio cos’era, l’Imperatore Ming di Flash Gordon, signore dell’Universo?

Devo sapere qualcosa di più.

Mi metto a navigare alla ricerca di notizie.

Io che navigo per trovare notizie su dischi di cui non mi mandano notizie.

Per alcuni di voi, molti (seppur molti cerebrolesi), tutto questo suonerà come un deja vu.

Infatti, mentre sto qui che cerco notizie su Vita ce n’è, incappando invece su indicazioni di voto del cantante romano, ecco che incappo in una notizia decisamente più interessante. Quella che non faticherei a definire come la notizia di questa settimana, non ci fossero le solite interferenze date dallo spread e da Gramellini, gli scienziati dell’Università della Georgia hanno finalmente scoperto perché il vombato faccia la cacca cubica.

Esiste una metafora dietro la faccenda della cacca a cubi del vombato? Puoi essere un essere umano, un cavallo che ha imbarcato acqua attraversando un fiume o un vombato, ma la merda resta merda a prescindere dalla forma che qualcuno, sia esso autore, produttore, manager prova a dargli

Sì, amici cerebrolesi che mi state leggendo. Questi i fatti, salienti. Esiste questo simpatico orsacchiotto che vive in Australia e Nuova Zelanda, il vombato (o wombat), che ha sempre mandato ai matti scienziati e zoologi per questa faccenda della merda. Unica razza al mondo, infatti, i vombati fanno la cacca in perfetta forma cubica. Negli articoli, andateli a cercare, vi prego, ci sono le foto che possono testimoniarlo. Piccoli cubetti di merda, lì, nelle terre aride dell’Australia. Immagino più per una faccenda di principio che per reale necessità conoscitoria, gli scienziati si sono incistati su questa faccenda, arrivando a coinvolgere anche colleghi che con gli animali in generale, col vombato in modo particolare poco di loro avrebbero a che fare. Così Patricia Yang, a capo di un tema di scienziati del Georgia Institute of Technology ha chiamato a sé l’ingegnere meccanico David Hu, e stando ai cognomi sembra che mai come in questo caso, direbbe Stefano Gabbana, i cinesi non hanno un cazzo da fare, per provare a trovare la quadra, scusate la battuta dozzinale. Quel che l’ingegnere recatosi appositamente in Australia per questo studio ha scoperto è che, innanzitutto, l’8 % dell’intestino del vombato è dedicato al plasmare la forma cubica delle feci. Feci che restano cubiche nonostante l’ano del vombato sia un ano, cioè un buco rotondo. A favorire questo miracolo, chiamiamolo così, una concomitanza di fatti. Da una parte il vombato ha l’intestino con le pareti molto dure, fatto che contribuisce a creare spigoli e angoli, dall’altra il simpatico animaletto è erbivoro e vive in una zona particolarmente arida, fatto che contribuisce a far sì che la sua cacca sia molto dura, secca. Due più due fa una merda a cubi, come neanche Piero Manzoni avrebbe saputo ideare.

A questo punto, suppongo, qualcuno di voi si starà interrogando su questo mio scritto.

Esiste un nesso tra la telefonata ricevuta da parte del manager Gaetano Puglisi e questo articolo?

Ma soprattutto, esiste una metafora dietro la faccenda della cacca a cubi del vombato?

Entrambe le domande hanno la medesima risposta: ovviamente sì.

Alla prima non credo sia necessario aggiungere nulla, se non il consiglio a tutti i cavalli di non attraversare l’acqua nei punti in cui non si tocca.

Alla seconda, invece, nel caso servisse, la chiosa che, puoi essere un essere umano, un cavallo che ha imbarcato acqua attraversando un fiume o un simpaticissimo vombato, ma la merda resta merda a prescindere dalla forma che qualcuno, sia esso autore, produttore, manager o meno prosaicamente buco di culo prova a dargli.

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