Il bastone. A un certo punto, il nonno, seduto sulla poltrona che aveva acquistato parecchi decenni prima, adornato da molti nomi, tutti di angeli – Michele, Angelo, Raffaele, Gabriele… – come scudi contro la fatale crudeltà dei mondi, con quel viso esatto, serafico, sereno, mi disse, “E lei chi è?, la donna delle pulizie?”. Si riferiva alla nonna, sua moglie, se l’era sposata 63 anni prima. Prima, pensai a una vendetta sublime, perfetta – il nonno era l’opposto della consorte, non so come abbia fatto a sopportarla –, qualche giorno dopo diceva di non sapere di avere avuto un figlio, s’era scordato del suo suicidio. Era impensabile lasciarlo solo, il nonno, si perdeva, arrivava, sudato, inquieto, in luoghi assurdi della città, finché i carabinieri non lo riportavano a casa e mia nonna, disperata, mi ingiungeva di rinchiuderlo in ospedale, “non è più lui”. Dopo la sua morte, fu mia nonna a non essere più lei: deflagrazione del linguaggio – dice una parola per significarne un’altra – alterazione dell’umore, atti pericolosi in luogo privato (pentolini bruciati, water intasato da residui alimentari, carte di giornale, stracci, urla, televisore scassato a piene botte). Il precipizio nella demenza senile, il geyser emotivo dell’Alzheimer, intendo, con le contraddizioni che si porta – alla beata ebetudine del nonno si contrappone l’ottusità violenta della nonna, che strappa flebo, pannolini, mena le infermiere, mi dona epiteti d’infamia – è stupefacente materia letteraria, un inabissarsi nel sottosuolo dell’uomo. Per questo, mi pare inaccettabile il romanzo a tesi, il temino di Michela Marzano, che fa del delirio mentale di Annie, madre dell’imbranato Pierre, un memoriale patetico, un pio escamotage per risolvere i dilemmi emotivi del frigido io (Alessandra detta ‘Ale’) che narra la storia. L’intrusione nella psiche altrui è superficiale e spesso sbrigativa – “Annie non ci stava più con la testa” –, l’ingresso nella malattia è didascalico, la scenografia viziata da gelido eccesso intellettuale – Pierre e Alessandra praticano in Università, abitano a Parigi, sono una coppia cerebralmente extradotata, lei non crede nella famiglia, non vuole figli –, i ghirigori filosofici di superba banalità (“Ma il presente non è anche il frutto del nostro passato?”; “Ci sono episodi della nostra vita che non passano mai, altri che fanno finta di sparire e invece continuano a condizionarci”). La tragedia, il tracollo della memoria, la riduzione dell’ego – che fruttifica grazie ai ricordi – a un ditale, sono minimizzati: alla Marzano, che fa la prof a Parigi, non interessa investigare la malattia di Annie, ma la grigia liaison tra Pierre e ‘Ale’, francamente triste, sciatta, stucchevole, dimenticabile (e glorificata dall’happy end finale, un po’ imbranato, che rende la coppia ancora più antipatica). L’anamnesi dell’amare è da rotocalco rosa (“arriva un momento in cui, in due, non si può più lavorare nella stessa stanza, specialmente quando c’è uno che fuma e l’altro no, uno che scrive con la musica in sottofondo e l’altro che si distrae anche solo se fuori c’è una macchina che suona il clacson”) e la scrittura è smunta, sciupata (esempio: “aveva il tono che ha sempre quando cerca di nascondermi qualcosa, come un bimbo sorpreso dalla madre con le dita immerse nel barattolo della nutella e che biascica: stavo solo controllando che fosse chiuso bene; anche se la mamma era stata chiara: ora basta con i dolci!”, una similitudine non proprio shakespeariana che dura per l’inutilità di cinque righe!), tirata via, buona a impalcare un romanzo per tutti i gusti, stagionale, giusto per abbozzare il ‘caso’ che sta a cuore a molti, che farà ‘dibattito’ per una manciata di mesi. Peccato, peccato. Perché il tema, davvero determinante – ho ancora un quaderno in cui riportavo tutti gli smottamenti verbali della nonna, i gesti scombinati, le volte che il soffitto si animava rendendola protagonista di memorie presunte, desunte chissà dove – e appena sfiorato – le pagine in cui ‘Ale’ trova le lettere di Annie, e le ribatte, sono le più belle, quelle salvabili, troppo poche – meriterebbe uno scrittore e una scrittura con altra tensione, tenuta, visione. L’alienazione dell’Alzheimer merita una ‘Recherche’ a contrario, una ricerca della memoria sbandata, una investigazione tra i perduti, una catartica catabasi nella gioia di perdere tutto, un giaciglio nel terrore dei presenti, dei parenti, che dalla persona amata – madre, nonna, zia, chicchessia – non ricevono neanche la riconoscenza del riconoscimento, ed è uno schianto.
Michela Marzano, Idda, Einaudi 2019, pp.232, euro 17,50
La letteratura nasce sfidando il male, altrimenti è svolazzo, piuma d’oca, volo di struzzo, cosa c’importa?
La carota. No. Non è necessario scrivere una ‘Recherche’, lasciamo stare Proust, lasciamolo fermentare nell’oro. Capitemi. La letteratura nasce sfidando il male, altrimenti è svolazzo, piuma d’oca, volo di struzzo, cosa c’importa? A volte la letteratura scrive la malattia: non per cauterizzarla, per dare rigore all’irragionevole, ma per consegnarcene l’odore. O fuggi – o reagisci. Faccio due esempi, in reazione al compitino – una specie di ‘relazione’ in forma narrata – redatto dalla Marzano. Il primo è un libro che certamente vi è ignoto, ma è bellissimo. S’intitola Bum, morto!, l’ha pubblicato un piccolo editore, CartaCanta, nel 2014, e l’ha scritto un poeta, Stefano Maldini. Nonostante il poeta, il libro non è lirico: è un libro crudo, pieno di amarezza e di gloria, gonfio di documenti – cartelle cliniche, lettere private – in cui il narratore (Maldini) racconta come ha vissuto con il fratello Andrea, gravemente disabile. Il rapporto continuo con il male, con il malato – come se fosse il rispecchiamento del proprio mostro personale, senza museruola – mette in crisi tutte le relazioni, corrompe la pazienza, e Maldini – con delicatezza narrativa – non nega la brutalità, il sentimento di rabbia, di privazione, di avventata gelosia. Soprattutto, il libro, una grandinata di domande (“Quanto di me è nato in quel gesto d’amore? Quanto destino mi ha accompagnato? Quanto delle mie azioni, delle mie scelte, delle mie direzioni ha cercato di compensare la vita di Andrea?… A volte mi sento come un sopravvissuto, come uno che è uscito vivo da Auschwitz. Mi sento in colpa, come tutti i sopravvissuti”), in equilibrio tra autobiografia e romanzo, senza un grammo di patetico compiacimento, ha un rigore di meraviglia invidiabile. Seconda via narrativa: non parlare della malattia, ma farla sentire, senza spiegazioni, reflui emotivi, schiavitù sentimentali. Come un pugno. Come una coltellata – senza più capire la diversità tra lama e luce. Jesus’ Son, questo catalogo di relitti, di derelitti, di alchimisti dello scempio esistenziale, di drogati e di mistici del caos, in questo caso, è un capolavoro. Lo ha scritto Denis Johnson, tra i grandi narratori americani dell’ultimo trentennio (leggete almeno Albero di fumo e Mostri che ridono): pubblico nel 1992, tradito in film nel 1999 (con Billy Crudup e Samantha Morton), tradotto in Italia l’anno dopo, nel 2000, ora meritoriamente pubblicato nella nuova traduzione di Silvia Pareschi. Il libro è impressionante, come cavalcare un puma pieno di lamette da barba sulla spina dorsale: alterna parti cruente – il resoconto minuzioso, ‘organico’, di un incidente d’auto – all’eccesso di sensibilità (“Lungo il corridoio avanzava la moglie. Era magnifica, ardente. Non sapeva ancora che suo marito era morto. Noi invece sì. Ecco cosa le dava tanto potere su di noi. Il medico l’ha portata in una stanza con una scrivania in fondo al corridoio, e da sotto la porta chiusa si è sprigionata una lastra di fulgore, come se, grazie a qualche stupefacente processo, lì dentro stessero incenerendo dei diamanti. Che polmoni! Strillava come avrebbe potuto strillare un’aquila. Che meraviglia essere vivo per poterla sentire! Da allora non ho più smesso di cercare quella sensazione”). Così, il linguaggio gergale, spesso allucinato, di chi fa un carpiato nel male, è inargentato da passaggi di straziante vertigine: “Pensate di galleggiare rannicchiati nell’oscurità. Anche se riusciste a pensare, anche se aveste un’immaginazione, potreste mai immaginare l’opposto, quel mondo miracoloso che i taoisti asiatici chiamano ‘le diecimila cose’? E se l’oscurità diventasse più oscura? E poi arrivasse la morte? Vi importerebbe? Vi accorgereste della differenza?”. 11 racconti. 90 pagine. 90 stoccate, 11 KO. Tanto dura Jesus’ Son. Tanto basta per farci toccare le stimmate dei perduti. No. Non è necessario scrivere una ‘Recherche’.
Denis Johnson, Jesus’ Son, Einaudi 2018, pp.98, euro 16,00