Il bastone. In sintesi, il succo del romanzo è a pagina 161 (“E se tradire, per lui, fosse stato il modo per tornare a essere fedele a Margherita?”), tutto questo incendio narrativo per una questione di ostentata idiozia – il tradimento che fortifica la fede, lo sapeva anche San Pietro, lo sanno anche le coppie che propendono, nel lusso della lussuria, per ‘vacanze separati’ – che si risolve nel parallelepipedo di una rubrica del cuore su una rivista femminile, chessò Donna Moderna o Grazia, quanto a sapienza d’amore più sofisticate di Marco Missiroli.
L’ultimo romanzo di Missiroli, che vincerà il prossimo Premio Strega, si snoda tra il 2009 e il 2018, tra Milano e Rimini – la prima è la città dove abita l’autore, la seconda è l’urbe natale, sai che fantasia – racconta la storia di un Carlo Pentecoste che va in panne per il bel culetto di una sua studentessa, Sofia Casadei – S.O.S. editor: vanno bene i normi ‘parlanti’, ma questi sono davvero ‘urlati’, non pensate al lettore come a un pio cretino… – ma, tranquilli, i due non scopano mai. Eppure, basta questo bramito di voglia (“Cos’era quest’ossessione? Il culo. Poi? La voce, ascoltargliela nella lussuria”) per mettere in dubbio – magari accadesse una crisi, magari accadesse qualcosa! – il rapporto coniugale tra Carlo, prof un po’ disadatto – anche a scopare: “Non ce la faceva a scoparsi una studentessa, a gestirsi dopo, a far finta di niente con il rettore con il padre con la moglie con la sorella con chiunque, giustificandosi per un fatto che non era stato nemmeno in grado di finire” – e la moglie, Margherita, che per sollazzarsi si fa sbattere dal fisioterapista – solo una volta, però – con la passione per le lotte clandestine di cani, si chiama Andrea, che purtroppo per lei è gay.
Al netto di tutto, gli eroi borghesi di Missiroli – questo romanzo sarebbe già vecchio negli anni Cinquanta, pone questioni morali che neanche i Vittoriani in UK, pare il ballo delle monache debuttanti – si fanno omeriche seghe mentali scopando di rado. E quando scopano – dacché il sesso è il cuore del romanzo – lo fanno male, perché Missiroli, padre Mario, il frate della letteratura italiana contemporanea, è incapace di raccontare i corpi, gli estremi, gli estremismi (esempio: “Il glande rigonfio, la bocca forzata per contenerlo, schiudere le gambe e pulsare nell’attesa di godere”; consiglio: leggere un tot di Isaac B. Singer, di Jun’ichiro Tanizaki, di Ryu Murakami, e scopare di più).
Resta, piuttosto, la scrittura raffinata e vintage di Missiroli, inautentica, una imitazione di Philip Roth – in particolare: La macchia umana – ma senza Zuckerman scatenato, senza Sabbath che si masturba sulla tomba dell’amante, in grado, forse, di eccitare le allucinate sessantenni, che desiderano frate Mario come figlio, come amico, come galante soprammobile. Missiroli andrebbe letto chirurgicamente: fin dalle prime mosse (esempio: “Carlo Pentecoste andò alla finestra e riconobbe Margherita per il cappotto amaranto che indossava dal secondo giorno di primavera. Si era seduta sul muricciolo e leggeva un libro, ancora Némirovsky, teneva una gamba accavallata e con la mano libera vegliava lo zaino. Era fine marzo e una foschia inattesa attraversava Milano”) dimostra lo stile narcisistico da esteta delle scuole di scrittura, remissivo, inchinato, laccato, senza un fremito, senza il nitore del knock out, senza il bagliore dell’occasione persa.
Così, Fedeltà, con tutto il risonante armadio di cliché connessi al sesso (la moglie di Carlo immagina, mentre tromba, “uomini maestosi… addosso e intorno, insieme o separati, una cerchia che la proteggesse e la usurpasse”, le piace “vedersi desiderata in un modo primordiale, come prima dei fidanzamenti e degli altari e delle case acquistate con i mutui” e “ voleva solo essere una puttana”, roba che mi domando quali siano le fonti di fra’ Marco, poveretto, oltre a una candida gita su YouPorn e una rapida visione di Malizia in un cinema d’essai, è più smaliziato un qualsiasi filmetto con Edwige Fenech che questa antierotica polpetta), è un romanzo che non tradisce le attese, è un tradimento della letteratura. Letteratura, infatti, non è fare estatica estetica sul già visto, ma sfondare – con i fiori o con le pistole, con grazia o col ca**o – l’ignoto, verificando i mostri che vivono nel cuore e nella testa dell’uomo (Missiroli crede che siano i puttini di Raffaello a farci agire, mica il puttaniere che è in noi), rischiando una scrittura sporca, spuria, comunque intrepida.
Scrittore dal cursus honorum impeccabile – primo romanzo nel 2005 con Fanucci e Premio Campiello Opera prima, poi pubblica con Guanda, passa a Feltrinelli, ora il balzo in Einaudi – faccia da bravo ragazzo, bella presenza, voce ben arrotata, Missiroli ha scelto la prosa ‘sanremese’ – né troppo facile né troppo difficile – per conquistare il vasto pubblico, quello femminile, tra i 40 e i 50, che va in estro per storielle simili. Un po’ più complesso di Sveva Casati Modignani – ma le sue storie sono più piccanti – meno difficile di Cesare Cremonini, Marco Missiroli vincerà il prossimo Premio Strega. Se lo merita.
Marco Missiroli, Fedeltà, Einaudi 2019, pp.232, euro 19,00
La carota. Nonostante il pedigree dell’autore, uno dei più virtuosi narratori di oggi (leggete, almeno, Tutti i sognatori, Le variazioni Reinach e Ultimo parallelo), Filippo Tuena non vincerà il Premio Strega. Con ostinata indipendenza – e una certa indolenza a mordere il torso della fama – Tuena ha scritto “quasi un’autobiografia” fuori formato – si va per 660 pagine e oltre – fuori norma, fuori dai soliti schemi della narrativa italica, piacevole senza essere piaciona, scassando i luoghi comuni del romanzo – il faro è il romanzo-saggio, la gita colta nel fuori pista della letteratura, d’après Sebald – per fortuna. Le galanti, evviva!, è un libro avventuriero, in linguaggio avveniristico, “un libro di fantasmi”, un assalto tra reperti d’arte, quadri, fotografie, libri, presenze, consapevoli che “ogni viaggio, persino quello dell’esploratore più estremo, finisce per essere un ritorno a casa”.
Per lo più, in scrittura per nulla leziosa ma percussiva, questo libro va vigorosamente ‘giocato’; tra le altre cose, trovate Van Gogh che si taglia l’orecchio e perde l’identità quando il fratello Theo gli dice di aver chiamato come lui suo figlio (“la perdita dell’identità, che Vincent identifica nel furto del nome, lo porta alla definitiva scelta di annullarsi”) e il suo precursore, Adolphe Monticelli, “un pittore strano, molto complesso, scontroso, pieno di complicazioni”, incontrate le Moire, una consunta edizione dell’Odissea, il sepolcro di Géricault, una straordinaria descrizione della Caccia notturna di Paolo Uccello, la gita di Stendhal tra Volterra e Firenze, “il nudo femminile di cui ci s’innamora a prima vista”, la Venere Rokeby di Diego Velázquez, “un gesto da sirena anche strafottente perché attraverso lo specchio – che la nasconde – osserva il pittore che la ritrae e sembra dirgli: mi concedo e mi nego. Sono o non sono. Potrei voltarmi o non farlo mai. Del resto ci siamo amati o stiamo per farlo? O forse non lo faremo mai e questa è tutta un’illusione” (frasi dalle volute voluttuose, ben più erotiche della sessomania algida arguita da Missiroli).
In uno stesso ring di pagine Tuena tiene insieme il mito delle Aglauridi, il duca dell’inconscio, Freud, Il terzo uomo – con “il fantasma di Orson Welles” che corre – e Beethoven, e ogni elemento non è ornamentale – un prestigio da dandy con un trono tra le rovine – bensì significativo (anche ai fini liturgici della ‘trama’), tonante, totale. Al di là delle specifiche ossessioni dello scrittore – che è esperto d’arte – Le galanti è soprattutto speleologia nel narrare – vincere la finzione con una finzione più autentica, scevra di lacche e lacchè – e nello scrivere, riflessione che diventa rabdomanzia antartica nel lotto di pagine, 384-411, in cui Tuena torna a sondare l’impresa di Robert Falcon Scott al Polo Sud, che è anche una impresa della scrittura – nella tragica eternità del bianco l’esploratore e i suoi scrivono diari definitivi, una autentica malia. “Scrittura e Antartide: tutto si riduce alle poche parole pronunciate da Scott quando raggiunse il novantesimo parallelo. It’s an awful place. È un luogo orribile. Privo di coordinate, tutto si riduce a un punto geografico. È un luogo inospitale, privo di ripari. In effetti quando arrivi al novantesimo parallelo della scrittura la sensazione non è piacevole. Una scrittura educata tradirebbe la natura del luogo che si percorre.
Come forse si evince, il libro si struttura in due grandi parti, una legata alla seduzione femminile, erotica, l’altra al desiderio di annientarsi, di scomparire; alla dannazione di essere gettati in questo mondo e di non poterlo evitare o dimenticare. La vicenda di Scott è quella di una lenta, meditata e inflessibile autodistruzione. Ne siamo tutti attratti e vittime”, mi ha detto Tuena. Uno scrittore che conosce il terribile della scrittura, che non si ritrae dal rischio, che ritrae la grandine d’oro che a volte, in momenti d’estasi inattesa, rende meraviglioso il caos della Storia. Non vincerà il Premio Strega. Per fortuna.
Filippo Tuena, Le galanti, Il Saggiatore 2019, pp.670, euro 32,00