Il bastone. Lena disegna, fa l’illustratrice, fatica a trovare lavoro e fatidico equilibrio personale, soggiogata da due genitori equivalenti nel narcisismo. Papà Ennio “è stato uno scrittore molto acclamato… oggi gli studenti di Lettere scrivono tesi su di lui”; anche mamma Metella fa la scrittrice, scrive romanzi porno chic con lo pseudonimo di Ava D’Aulnay, le piace piacere, con l’età la stupidità levita. Ennio e Metella sono divorziati da quando, ci confessa Lena, “non avevo ancora vent’anni”: il primo abita a New York, “dove tiene corsi di scrittura e di drammaturgia all’università”, si è risposato con Joanna, “molto più giovane”, da cui ha un figlio, Leone; la seconda fa la vita a Parigi.
Se fin qui la trama vi pare ingessata nei più fatidici cliché, incastellata in conturbante banalità, tenetevi forte, è solo l’inizio. Papà Ennio regala alla figlia, in ristrettezze economiche (come tutti i precari), la casa di famiglia a Levura, isola fittizia in arcipelago siculo, dove tutto è sgargiante (“Il chiarore dell’alba filtra dalla finestra della stanza blu”: non si potrebbe dir peggio), il sole è più sole che mai, il tempo passa lento, la vita cambia. Lena incontra un bel dottore, Tommaso (qui il barometro delle ovvietà esplode: “Si sfila la camicia, espone spalle degne di nota… è di bell’aspetto. Capelli mossi, scuri, disordinati, e una barba che sembra non donargli, perché il mio sospetto è che il suo volto sarebbe molto più attraente senza”), con un segreto remoto – non un granché: ha spaccato il naso in pronto soccorso a un amico, reo di aver fatto “un incidente con la macchina, ma un incidente brutto davvero” (che sagacia retorica…), in cui è rimasta gravemente ferita l’amichetta del dottore, Chiara; il gesto gli ha dato noie lavorative. Attraverso la relazione con Tommaso, la frigida Lena (“Le ragazze normali si innamorano, mentre io no. A loro piace il sesso, mentre a me no”) scioglie il suo, di segreto: a quindici anni, in quella stessa casa di famiglia, d’estate, è stata violentata da un amico dei genitori (che più tardi si scoprirà essere lo zio).
La storia, piuttosto stanziale, dove non accadono altro che le chiacchiere, dovrebbe concentrarsi proprio qui, sulla violazione, sul turpe, sul disastro, sulla “tempesta” annunciata dal titolo. Ma, presumo, così il romanzo sarebbe diventato troppo ardito, tenebroso, complesso, truce. Troppo. La violenza, perciò, transita in superficie, sull’esistenza superficiale di personaggi privi di spessore, agiti dal burattinaio delle proprie calcolate voglie. Del romanzo di Alessia Gazzola non dovremmo neppure scrivere, perché non è un romanzo. Un romanzo non può rassicurare il lettore nella sua viziata idiozia (quando pensa di aver perso l’occasione con l’amore marino, Lena si lagna dando la colpa alla “mia timidezza, che poi non è timidezza, ma incapacità di lasciarmi andare”, olè), deve scuoterlo, commuoverlo, tormentarlo.
Se ne parlo è perché Alessia Gazzola è un ‘fenomeno’ da classifica libraria (sgargiante la fascia sexy che adorna il libro: “Un’autrice bestseller adorata dai lettori”; ma non si vergognano di questa atroce spudoratezza?), è una che vende. La notizia, dunque – e non è buona –, è che di quei pochi lettori che restano al Paese, alcuni, poveretti, si beano di vite microscopiche, asfittiche, sfollate al nulla, che non prendono d’assedio gli inferi né infiammano le schiere angeliche. L’ordinario da commedia hollywoodiana, già finto, sciupato, archiviato nel canone dell’inutile. In affetti, per capirci, basta leggere i Ringraziamenti, in calce al libro. La Gazzola è grata, tra l’altro, alle “poesie di Rupi Kaur” e alla “poetessa Anna Achmatova”. Rupi Kaur e Anna Achmatova. Insieme. L’accostamento è oltraggio: chi non conosce la valuta del verbo e la sua indifesa differenza, chi è privo del minimo senso della quota, del nitore della statura, cosa può scrivere?
Alessia Gazzola, Lena e la tempesta, Garzanti 2019, pp.186, euro 16,40
“La scrittura è una dimensione esistenziale. C’è una totale coincidenza tra me e la scrittura ed è una cosa terrificante”. Fuori dal terrificante, la scrittura è cipria, tonico indolore, meglio darsi al pilates
La carota. Mi viene da dire, leggendo la Gazzola – e suona un paradosso che lo dica io – signori, la letteratura italiana è viva! Non è questa, questo liofilizzato intrattenimento, questa scrittura sfibrata, appiattita, per lettori inappetenti alla meraviglia. A questo punto, in stato d’emergenza, mi urge consigliarvi un tot di libri, sperando che entrino in classifica, scalando le vette del buon senso.
Mi pare bello, per dire, L’amore di nessuno di Fabrizio Patriarca, pubblicato da Minimum fax, che oppone una lingua muscolare e carnosa a quella biodegradabile e vegana di tanta narrativa d’oggi (l’incipit incipiente, passo da narratore blindato: “Annamaria Franzoni solleva il mento tra le coste di un giubbetto jeans, un oggetto difficile da collocare, soprattutto in televisione, se non fra gli espedienti improbabili di una costumista in tilt. Allunga il collo dalla voragine di una camicetta a bande, optical leggero, stralcio di boutique: forse non ha capito la domanda, sposta gli occhi a sinistra, dondola un piede vagamente sexy nel sabot beige”).
In una recente intervista concessa a Simone Cerlini, lo stesso Patriarca ha messo, con lusso, l’indice nel fuoco della questione: “A me l’italiano prosciugaticcio di certi romanzi contemporanei che viene osannato perché richiamerebbe il “nitore” di alcuni modelli americani – sempre gli stessi – lascia sempre un po’ perplesso: ci vedo un abbandono della “strada folle” di dantesca memoria. Noi italiani siamo gente dantescamente folle. Il Barocco, disciplina in cui rompiamo il culo al mondo, ci ha insegnato che non esiste solo il nitore di “sottrazione”, ma pure un nitore fatto di aggiunte e superfetazioni, di enfietà, flogosi, metastasi. Viva Stefano D’Arrigo e Gesualdo Bufalino!”.
E poi. Chiarelettere ha varato da un po’ la collana ‘Narrazioni’ che ha il pregio di una certa audacia. L’anno scorso – tra quelli che, con il demone dell’opinabilità, piacciono a me – è uscito Prima che te lo dicano altri, del bravissimo Marino Magliani, artigiano di nostalgie e di ferocie, uno che scrive usando la roncola, con alta dignità artigiana. Quest’anno, è pubblico Necropolis di Giordano Tedoldi, che pare trafittura onirica, anzi, orrorifica, da Cabbala rovesciata, un viaggio quintessenziale nel duplice regno dei morti. D’altronde, dice lui, Tedoldi, in eccesso di lucidità, “Mi servo della letteratura per scioccare. Raccontare cose inaudite”, che altro c’è da raccontare, in effetti?
A confronto della Gazzola, ammetto, anche l’ultimo romanzo di Viola Di Grado, Fuoco al cielo (stampa La Nave di Teseo) – m’era piaciuto per nulla il precedente, Bambini di ferro – ha il carattere dell’austera autorialità, la chirurgia di un mondo narrativo autonomo – la storia di Vladimir e Tamara, nella ‘città segreta’, tra ustioni siberiane –, un suo cardine estetico (“Adesso i licheni si allungano sulla lavagna, macchie nere su nero, parole senza senso, frastagliate. I licheni possono crescere dappertutto, sul metallo freddo o sul vetro nudo di una finestra, sui pezzi delle cose rotte, non hanno bisogno di luce né di cure”). In effetti, anche per lei, a quanto leggo in un’intervista, “La scrittura è una dimensione esistenziale. C’è una totale coincidenza tra me e la scrittura ed è una cosa terrificante”. Fuori dal terrificante, la scrittura è cipria, tonico indolore, meglio darsi al pilates.