Permettetemi di partire da un ricordo personale. Qualche anno fa mi trovavo a Londra. Come molti della mia generazione (ho 33 anni), parecchi miei amici hanno deciso, in periodi leggermente meno inquieti, di trasferirsi lì. Sono andato a prendere uno di questi dopo il suo lavoro, in una grossa banca d’affari a Canary Wharf. Era la prima volta che mettevo piede in quell’isola costruita dal nulla per dare alla capitale mondiale della finanza un secondo polo attrattivo. Per chi non la conoscesse, Canary Wharf è una sorta di megalopoli finanziaria dentro Londra, un’isola interamente occupata da cemento e palazzi altissimi dove trovano sede istituti finanziari di vario tipo. È un’isola in cui non c’è nulla oltre il lavoro, che non vive fuori dal tempo di lavoro — a dire il vero potenzialmente infinito — di questi automi senzienti consolati da uno stipendio astronomico che non hanno modo di godersi. Avevano tutti finito il turno, e si erano riversati nei pub dell’isola. Le piazze artificiali, in cui la metafisica di De Chirico in cui tutto è presente tranne l’essere umano incontra il Brutalismo (lo stile architettonico tipico dell’Inghilterra di quegli anni, con la materia in prima vista e la sensazione di oppressione permanente), che collegano le gallerie commerciali sotterranee e i palazzi dove di giorno gli uomini in grigio producono valore per il capitale sempre più artificiale e immateriale, si riempiono di presenze che non sono veramente lì. Stavo sperimentando una spettralità assoluta; una sorta di presenza-non-presenza. Non una semplice alienazione, qualcosa di diverso. Una sorta di scarto in cui la vita e la non-vita occupano lo stesso spazio. Era la prima volta che provavo questa sensazione. Non avevo ancora letto una riga di Mark Fisher ma in qualche modo sapevo che c’era qualcosa che non andava. Riguardando le foto che avevo fatto in quel giro per Canary Wharf avevo proprio avuto l’impressione che si trattasse di un luogo popolato di fantasmi. Non lo sapevo, ma stavo sperimentando una hauntologia.
Realismo Capitalista (Not, 2018) ha fatto conoscere anche da noi in Italia Mark Fisher, uno dei più straordinari pensatori degli ultimi anni. In quel libro — riassunto da molti nella spiegazione lunga del solo titolo («Il capitalismo ha occupato tutto lo spettro del reale e ci ha convinti che non ci sono più alternative») o nella citazione della nuova frase passe-partout «È più facile immaginare la fine del mondo che non la fine del capitalismo» (la cui genesi resta incerta tra Fredric Jameson e Slavoj Žižek) — Fisher sistematizza l’alienazione contemporanea in uno scenario in cui l’intero spazio interpretativo e cognitivo è occupato dalla creazione di valore; la frammentazione del tempo in un presente permanente impedisce l’interpretazione del passato e quindi la costruzione del futuro; e l’unico sbocco è chiudersi in una depressione diventata sintomo dominante di questi anni in cui non esiste davvero più nessun tipo di orizzonte. Il discorso di Fisher — purtroppo morto suicida nel gennaio 2017 — trova una sua coerente continuazione in Spettri della mia vita. Scritti su depressione, hauntologia e futuri perduti, pubblicato per minimum fax (che già aveva dato alle stampe lo scorso anno The Weird and the Eeire, entrambi tradotti da Vincenzo Perna). Per farla breve, la hauntology è uno schema ideato da Jacques Derrida in Spettri di Marx (1993) e che Fisher usa per indagare le modalità della cultura e della vita contemporanea, in qualche modo totalmente “infestate” dall’idea dei futuri perduti e dalle impossibilità di movimento. La hauntologia è la manifestazione di quello che non c’è più e che rimane, uno spettro, appunto, segno di un mondo in cui la virtualità (dalla finanza ai social network) producono effetti nel mondo reale (dall’online all’onlife). «Ciò che dovrebbe ossessionarci» — scrive Fisher — «non è il non più della socialdemocrazia reale, ma il non ancora dei vari futuri che il modernismo popolare ci ha preparato ad attendere e che non si è mai materializzato». Per usare un’altra frase molto in voga in questo periodo, è il famoso interregno popolato da mostri di Antonio Gramsci in cui il futuro non può nascere.
«Ciò che dovrebbe ossessionarci» — scrive Fisher — «non è il non più della socialdemocrazia reale, ma il non ancora dei vari futuri che il modernismo popolare ci ha preparato ad attendere e che non si è mai materializzato»
La malinconia per il futuro perduto non va quindi confusa con la nostalgia. Non si tratta del ricordo falsato di un eden immacolato in cui tutto era perfetto (perché edulcorato dalla distanza e appiattito nei ricordi filtrati da cultura di massa e immaginari costruiti ad hoc), ma di una permanenza di una possibilità che non è mai stata. E non è stata per la disgregazione del concetto di classe propugnata dal neoliberismo; per l’impossibilità delle persone di farsi comunità, spinte fuori dalla vita culturale delle città per le esplosioni delle bolle immobiliari e/o costrette a impiegare tutto il proprio tempo alla produttività per sopravvivere e pagarsi affitti e mutui sempre più alti; per la resa della sinistra ai dogmi della dottrina thatcheriana-reaganiana che hanno distrutto lo stato sociale e messo al centro del discorso la competizione, il narcisismo personale e l’individualismo auto-concluso. Se tutto il tuo tempo deve essere destinato alla produzione di valore istantaneo, non c’è più spazio per pensare sul medio termine e farsi prendere dallo “shock del futuro”.
Nelle pagine di Spettri della mia vita l’analisi con cui Fisher cerca di tracciare la mappa del mondo in cui viviamo si dipana principalmente attraverso la musica. C’è anche molto cinema (da Shining a Inception) e molta letteratura (Davide Peace, John Le Carré), ma è la musica a rappresentare la vera e propria cartina di tornasole per analizzare i grandi cambiamenti e spostamenti che agitano la società e muovono le persone. In questo contesto, quindi, la musica del ventunesimo secolo sembra aver perso ogni slancio vitale verso il futuro, ogni spinta verso una tensione sconosciuta. La musica è passata da essere dimostrazione di un mondo che ancora non c’era («È stato proprio attraverso le mutazioni della musica pop che molti di noi cresciuti durante gli anni Sessanta, Settanta e Ottanta hanno imparato a musicare il passaggio del tempo culturale»), a espediente consolatorio in cui non esiste più la possibilità di andare oltre un già sentito che non è solo citazione, ma è proprio un modo di costruire («Mentre la cultura sperimentale del ventesimo secolo era preda di un delirio ricombinatorio che dava l’impressione che la novità fosse disponibile all’infinito, il ventunesimo secolo è oppresso da un soffocante senso di finitezza e sfinimento»). Partendo da qui, Fisher unisce i puntini per un’analisi del mondo in cui sembra non ci sia possibilità di salvezza se non attraverso una resistenza capace di andare oltre le sirene di un mainstream che non ha più niente da offrire — e che assorbe tutto il perturbante con cui entra in contatto — e concentrarsi su un lavoro sulla memoria capace in qualche modo di sbloccare i ricordi e le energie (dal Burial di Untrue al lavoro del leader degli Ultravox John Foxx in Tiny Colour Movies, o la produzione dell’etichetta Ghost Box) con la consapevolezza della autentica disperazione in cui ci stiamo muovendo (le bellissime pagine sull’Inghilterra, la lotta di classe e la meccanica dell’uomo alienato sui Joy Division, o quelle dedicate collasso dell’edonismo attraverso l’autotune in Kanye West e Drake).
Rancore; rabbia; depressione; risentimento; populismo; fascismo. Conseguenze di un progetto politico che ha creato il mondo che pensavamo di desiderare
Non sono più tornato a Canary Wharf ma passeggiare per Londra oggi è un’esperienza hauntologica in tutto il suo complesso. Sarà per colpa della Brexit (e a questo punto sorge spontanea la curiosità sul modo in cui l’avrebbe potuta affrontare Mark Fisher, che negli ultimi anni stava lavorando alla prospettiva di un “comunismo acido” come possibilità alternativa all’esistente), sarà perché ormai tutta la città è stata invasa dalla bolla post-Olimpiadi 2012 in cui il costo della vita è spropositato e tutte le strade, tutte, raccontano di un futuro perduto e delle infinite possibilità di tempi che sono stati (negli anni recenti lungo strade di Shoreditch, il quartiere diventato Hipsterland, si è scritto sui muri «Yuppies go home»: yuppies, non hipster, e non penso sia una scelta casuale); sarà che l’ombra lunga di questo “nulla” che tutto assorbe e niente lascia sembra aver preso tutto il mondo per come lo conosciamo — e si ritrova anche nelle strade di Roma, di Milano, di Torino — non lasciandoci altro che la melanconia che «non riguarda la rinuncia del desiderio, ma il rifiutato di darsi per vinti […] anche se il prezzo di tale rifiuto finisce per farti sentire un reietto nella tua stessa epoca». Rancore; rabbia; depressione; risentimento; populismo; fascismo. Conseguenze di un progetto politico che ha creato il mondo che pensavamo di desiderare, ha portato velocemente alla catastrofe (una catastrofe che è prima di tutto annullamento di quell’individuo che si pensava essere il centro della ripartenza dopo aver decretato la morte della società) e ha finito per distruggere completamente il futuro. Per tornare a immaginarlo, bisogna liberarsi del fantasma. Perché il lutto cominci davvero, il morto deve essere esorcizzato. La hauntologia ci sta dicendo che stiamo rifiutando di rinunciare allo spettro, e al tempo stesso lo stesso spettro non riesce a rinunciare a noi. Non sarà facile, ma è l’unica cosa che possiamo fare.