Proprio perché non riesci a sintetizzarlo in una didascalia, scassa ogni museruola creata ad arte dalla critica letteraria, è insopportabile. Fëdor Dostoevskij non lo puoi leggere, lo soffri, ti arriva addosso facendo un pagliaio del costato, un falò delle beate convenzioni che tengono in piedi la palazzina della tua vita, buona, sana, giusta. “Ma Dostoevskij, come i santi in cerca di salvezza, ascolta senza tregua una voce che gli sussurra: Osa! tenta il deserto, la solitudine. Sarai bestia o Dio. Fra l’altro, nulla è certo anzi tempo. Comincia col rinunciare alla coscienza che pretende di apprendere ogni cosa, e dopo vedrai”, ha scritto Lev Sestov, il grande filosofo russo, l’unico che abbia accolto, esaltandoli, gli aspetti esasperati, impossibili, a morsi in faccia, dell’opera di Dostoevskij.
Così, quando leggo che Archivio Zeta – cioè: Gianluca Guidotti e Enrica Sangiovanni – ‘festeggia’ vent’anni di attività teatrale in direzione anomala – hanno lavorato su Werner Herzog e Elie Wiesel, compiendo, soprattutto, una originale catabasi nel teatro greco antico – portando Dostoevskij nel Cimitero militare germanico della Futa, l’immane sepolcro, inaugurato 50 anni fa, dove sono accolti oltre 30mila soldati tedeschi morti durante la Seconda guerra, mi dico: è perfetto. Dostoevskij va brandito dove la Storia è una contraddizione permanente, una ferita che ancora sbraccia.