Il bisogno del meritoLe sfumature sovietiche di una certa sinistra che odia la meritocrazia

Oggi si tende a criticare il valore individuale, sperando di risolvere i problemi collettivi. Intanto però le differenze tra i gruppi aumentano e la colpa è da attribuire a una visione ancora arcaica del mondo

L’“ossessione meritocratica”, se perseguita, accrescerebbe la diseguaglianza. Le persone fisiche, se l’ossessione fosse perseguita, verrebbero premiate o punite secondo i “meriti”. Le persone giuridiche, sempre se l’ossessione fosse perseguita, non verrebbero salvate nel caso in cui mostrassero di non saper competere in un mondo globalizzato.

L’”ossessione meritocratica” ha lo scopo di aumentare nella massima misura la competitività. Ne scaturisce un mondo con al centro l’homo oeconomicus, un individuo in cui prevale la ragione strumentale, quella volta a perseguire obiettivi utilitaristici che, se ottenuti, sarebbero frutto del merito. I premiati sarebbero così gli studenti che primeggiano nelle discipline del “saper fare”, e non, come avviene oggi, del “sapere astratto”, oltre alle imprese che sono competitive senza reti di protezioni, così come gli Stati che s’impongono nell’arena internazionale.

L’”ossessione meritocratica” – secondo i suoi critici – legittima l’accettazione del mondo “così com’è”. Poiché tutto dipende dal merito individuale, si ha la rimozione del conflitto sociale. Non si prefigura quindi un ordine sociale diverso, ma si conferma quello esistente. Chi “resta indietro” non può godere direttamente dei frutti del progresso per l’assenza di merito proprio, ma può trarne vantaggio attraverso il Reddito di Base Universale, che trasferisce una parte del maggior reddito dei “meritevoli” verso i “meno fortunati” divenuti – col cambio di paradigma – “meno meritevoli”.

Le diseguaglianze stanno crescendo anche per effetto di dinamiche che fuoriescono dai radar del “politicamente corretto”. Si dibatte dell’homo oeconomicus, ma raramente della mulier oeconomica.

Pare ovvio che quanto delineato piaccia poco ad una certa sinistra. Si ha in questo mondo, infatti, un solo criterio per giudicare sia se stessi sia gli altri: il successo. Come conseguenza, per come si distribuisce il successo, si hanno delle diseguaglianze marcate, il cui criterio di legittimità non è più, come in passato, la nascita, ma il successo professionale. Con le diseguaglianze lenite, come abbiamo visto, dai trasferimenti di reddito per via fiscale.

Nel mondo di ieri, quello in cui le posizioni sociali erano credute come il frutto della “volontà divina”, chi stava “in fondo” poteva consolarsi, perché aveva a che fare con una volontà superiore, mentre poteva sempre accedere, attraverso la cruna dell’ago, al Paradiso. Anche in India le gerarchie sociali erano accettate perché, come si dice nei film statunitensi, si aveva sempre una “seconda possibilità”, il rinascere, se meritevoli, in una casta superiore. Le religioni hanno quindi colmato la distanza fra il “merito” e il “destino”, immaginando una giustizia post mortem. Nel mondo della meritocrazia la giustizia è nel ricevere il dovuto “secondo le proprie capacità”, ma, a differenza delle religioni, ante mortem.

Le diseguaglianze stanno crescendo anche per effetto di dinamiche di cui si parla poco. Si dibatte dell’homo oeconomicus, ma raramente della mulier oeconomica. La fuoriuscita delle donne da una condizione di subalternità è una causa non secondaria della diseguaglianza in aumento. Le donne da quando studiano in massa accrescono il proprio “capitale umano”. Accrescendolo, possono avvicinarsi ai redditi degli uomini. Si supponga che i redditi maggiori siano di 30 mila euro e quelli minori di 10 mila all’anno. E si assuma che il reddito abbia un legame con l’istruzione. Se un uomo e una donna molto istruiti si sposano, il reddito della loro famiglia sarà di 60 mila euro. Se un uomo istruito sposa una donna non istruita, o viceversa, il loro reddito sarà di 40 mila euro. Se due persone poco istruite si sposano, il loro reddito sarà di 20 mila euro. Se i figli di quelli che guadagnano di più hanno accesso alle scuole migliori dove incontrano l’anima gemella con cui fanno dei figli che, studiando meglio, alla fine guadagneranno di più, ecco che avremo una concentrazione dei redditi crescente.

Vi sono altri effetti di non minore impatto. Accrescendo il proprio capitale umano, ecco che le donne fanno meno figli. Un fenomeno che si osserva sia guardando a ritroso quanto accadeva ai tempi delle nonne nei Paesi occidentali, sia osservando le donne immigrate da Paesi in via di sviluppo, che nel luogo d’origine generano molti figli, ma giunte qui, dopo un paio di generazioni, liete si accodano alle usanze locali.

Per frenare questa dinamica che accresce la diseguaglianza e riduce la crescita demografica le donne dovrebbero tornare a “fare la calza”, una sorta di restaurazione che non ha nulla a che fare con il progresso e l’eguaglianza. Le relazioni tradizionali, per usare un’espressione di Karl Marx, sono evaporate. I contadini hanno smesso di togliersi il cappello al passaggio del signore in carrozza, per usare un’espressione di Thomas Mann. Una volta viaggiavano i ricchi e gli emigranti – questi ultimi solo con il biglietto di andata. Una volta i ricchi si imparentavano al di là dei confini, e sapevano le lingue, mentre gli altri potevano al massimo aspirare a conoscere qualcuno che abitasse non troppo vicino, così da apprendere un secondo dialetto. Oggi quasi tutti viaggiano e quasi tutti cominciano a parlare una seconda lingua.

Le critiche al mondo dove prevale il successo meritocratico denunciano la diffusione del conformismo. Si assume che la creatività non sia funzionale al Capitalismo. La creatività è degli artisti e il seonso critico degli intellettuali. In realtà non è proprio così

Le critiche al mondo dove prevale il successo meritocratico denunciano la diffusione del conformismo, il quale creerebbe degli automi funzionali alle imprese e allo Stato, facendo girare la macchina del Capitalismo globalizzato. Si assume che la creatività non sia funzionale al Capitalismo. La creatività è – secondo questo punto di vista – degli artisti e il senso critico degli intellettuali.

Sicuro sicuro che le cose stiano così? Chiediamoci qual è (nientemeno) il senso ultimo del Capitalismo? Secondo Schumpeter la produzione di calze di seta non ha come scopo quello di abbigliare elegantemente la Regina, bensì le milioni di operaie che le possono calzare. Ciò che avviene man mano che la produzione di calze si materializza con una produttività crescente. Si deve avere chi inventa le calze industriali, chi inventa le macchine per produrle, chi finanzia il tutto. Insomma, gli imprenditori che offrono le calze a tutti “sono” il Capitalismo. Gli imprenditori sono la figura “romantica” ed “eroica” che rompe gli schemi e innova. Ergo, il Capitalismo è mosso dai non conformisti, che non sono solo gli artisti e gli intellettuali, al contrario di molte credenze diffuse.

Ma torniamo alla critica alla meritocrazia. Se si vuole in partenza redistribuire in misura marcata il reddito e mantenere poi l’eguaglianza così ottenuta, si devono fare i conti con quanto avvenuto. L’eguaglianza e il mantenimento della stessa sono state sperimentate per decenni in Unione Sovietica. La diagnosi era (giustamente) che l’ineguaglianza è il frutto sia del diverso livello di istruzione sia della presenza della proprietà. Perciò, riducendo il premio dell’istruzione ed eliminando gli imprenditori, si sarebbe ottenuta l’eguaglianza. Le imprese nel socialismo pagavano, infatti, relativamente molto i lavori meno qualificati, e relativamente poco quelli più qualificati. In questo modo non si aveva un premio per la maggiore istruzione. Ovvio, inoltre, che, abolendo la proprietà, non si potevano avere né le eredità provenienti dalle ricchezze create in passato, né le ricchezze create nel presente. L’esperimento sovietico aveva così creato un’eguaglianza marcata, ma aveva anche frenato gli incentivi a studiare e a rischiare. Si aveva, alla fine, un’economia poco innovativa.

Secondo di due articoli. Il primo si legge qui

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