Uno scrittore senza la sua ossessione è niente, solo un assemblatore di parole e segni di interpunzione. Sergio Nazzaro non è tra questi. Pubblica inchieste, reportage, saggi e romanzi da più di vent’anni e non c’ è una sua opera né storia né tono narrativo – farsa, tragedia o elegia – che ha maneggiato nella quale la molla della sua ossessione non lo abbia catapultato dentro universi differenti eppure così simili, nel costante ritorno ad una terra madre che spiega ogni cosa, che avviluppa, salva e uccide.
La geografia per un narratore è tutto. Cosa sarebbe Ellroy senza la sua amata e odiata L.A. o Salgari senza i suoi tropici del sud est asiatico? L’epidermide bianca lattiginosa tradisce la sua terra d’origine, la Svizzera: la cui nemesi si compie perfetta, così ordinata e pulita ha custodito per decenni nei suoi forzieri segreti e denari, tutto lo sporco del mondo.
Nazzaro però è cresciuto altrove, in un altrove che lo ha reso lo svizzero più terrone della narrativa italiana, quello più nero e sgarrupato d’Italia, tra Mondragone e Castel Volturno, provincia di Caserta, propagine di un mondo che forse solo agli slums di Nairobi o Bombay può essere paragonato. Un luogo che è diventato la sua ossessione, che lega ogni suo libro, dal famoso esordio di “Io per fortuna c’ho la camorra” all’ultimo reportage “Mafia Nigeriana” appena uscito per i tipi di “Città Nuova Editrice”. È il motivo è semplice. Ogni fenomeno sociale e criminale lì si è prodotto e solo dopo è tracimato per tutta l’Italia. L’abusivismo della classe media napoletana sul litorale in pieno boom economico, l’assalto della Camorra di paese all’aristocrazia criminale napoletana, parallela all’epopea corleonese dei “viddani” Riina e Provenzano, le prime fabbriche e quartieri della droga e la nascita dei primi ghetti, stile Harlem, la prima emergenza immigrazione quando ancora anche il più arrabbiato degli italiani non si permetteva almeno in pubblico epiteti razzisti, figuriamoci i politici. Non poteva che essere qui la Terra dei fuochi, non potevano che attecchire qui le prime stragi di camorra che colpivano diseredati e criminali autoctoni e di pelle scura. Non al passo con i tempi, ma in anticipo sui tempi.
La risposta del mondo tutt’intorno alle penisola Domiziana era, ed è, una sola: c’è ne fottiamo di voi. L’escrescenza che tutti schifano dopo averla prodotta. Basta questo per crescere con l’ossessione per questo lembo di terra. Che non è un non luogo: queste sono definizioni che funzionano per i fautori della gentrification, il fighettume cittadino che non contempla né sfumature né verità e si ciba di luoghi comuni per descrivere ciò che non vuole capire perché non odora come loro vorrebbero. L’area Domiziana appoggiata tra Napoli e Roma è un luogo, una terra bellissima che l’uomo ha maledetto. E che altri uomini vogliono benedire senza essere per forza criminali, profittatori, speculatori sulle sue piaghe.
Importiamo di tutto: mafie, droghe, speranze e sogni. «Oppure li lasciamo morire», dice Nazzaro. «E io voglio farli vivere, non ho altra scelta»
Nazzaro ci prova da vent’anni dicevamo e così sono nate le sue storie e i suoi personaggi così inventati da sembrare reali e così reali da sembrare esercizi di fantasia. Ma sono figli di quella terra. E sopratutto sono veri, così veri che Nazzaro ha dovuto solo trovare i loro verbali di esistenze storte o raccoglierne le confessioni un attimo prima che si perdessero di nuovo.
Ora, se nasci in posti dove per vivere devi fare la guerra ad altri o scegli la pistola o scegli la penna. E dalla penna di Nazzaro escono parlano e uccidono o salvano uomini, mafiosi nigeriani e killer tossici in gonnella, sbirri stropicciati o rampanti immobiliaristi che vendono grattacieli a Dubai e scappano sparendo dal mondo iperconnesso come ultima romantica scelta di fottere il sogno di accumulare soldi e mai di goderseli veramente.
«Non riesco a fare altro se non svelare quanto dolore ci può essere, anche in chi fa del male il suo mestiere. perché l’importante non è giudicare ma conoscere il meccanismo che ci fa essere migrante, mafioso, spacciatore, sbirro o prete». E così che ci si imbatte in Palma. «Ho tagliato droga. Non solo per venderla. A diciotto anni accompagnavo mio zio a riscuotere tangenti e comprare carichi di droga. Ho ammazzato. Più di una volta. Sto per morire. Non lo so perché, ma mi chiamano Palma. Ed è solo l’inizio della mia storia. Sto morendo. Non oggi. Ieri, ma è già successo. Domani probabilmente, ma lentamente. Ho trentasei anni e qualche mese sparso. Guardami in faccia. Se mi metto il fazzoletto nero delle vecchie quando sono a lutto assomiglio a loro. Anch’io sono a lutto». O in Amalia e Giufà, giovanissimi migranti protagonisti di Mediterraneo, libro a fumetti che Nazzaro firma con Luca Ferrara. Ovvero come il Mediterraneo si è trasformato da culla di civiltà in cimitero.
Tutti finiscono o partono o telefonano o salvano e amano nella terra dell’ossessione di questo strano svizzero catapultato sulla Domiziana. Dove trovano dimora gli invisibili dei pomodori più buoni del mondo e i capi della mafia nigeriana. Che Nazzaro risuscita così: «Amico bello, non sono arrivato qui su un gommone. Tu capisci? Ho scelto Jean come nome perché è elegante. Nome italiano no, io nero che mi chiamo Salvatore o Antonio. Sanno che è falso. Sono arrivato a Napoli con il treno. Semplicemente, cosa credi che sono disperato? L’Italia è sempre stato il Paese più facile dove stare. Basta entrare e rimanere. Sono partito da Benin City, sono andato a Lagos. E ho preso un aereo per Parigi. Mi dicono che a Castel Volturno ci sono tante case. Che si sta più tranquilli, che basta seguire le regole. Loro si fanno chiamare Eye Supreme Lords, Black Axe, ma ci sono anche i Sea Dogs, i Pirati e i Bucanieri. Tanti nomi, ma poi hanno capito che basta la parola mafia. Come da voi». Importiamo di tutto: mafie, droghe, speranze e sogni. «Oppure li lasciamo morire», dice Nazzaro. «E io voglio farli vivere, non ho altra scelta».