Aveva promesso, nel novembre 2018, che avrebbe restituito al Benin 26 manufatti sottratti durante il colonialismo. Non è successo niente. Un anno prima, a Ouagadougou in Burkina Faso, aveva annunciato che nel corso di cinque anni, la Francia avrebbe ridato le opere d’arte e il patrimonio culturale ai Paesi africani che lo avrebbero richiesto. In quel contesto, in mezzo agli applausi del pubblico (e ai brividi freddi dei direttori dei musei nazionali), il presidente francese Emmanuel Macron aveva anche incaricato due studiosi, il senegalese Felwin Sarr e la francese Benédicte Savoy, di scrivere un report per pianificare le operazioni di restituzioni. La ricerca è stata presentata all’Eliseo nel novembre 2018. E, a un anno di distanza, è ancora tutto fermo.
Macron non è l’unico a essersi interessato alla questione. Negli ultimi anni, complice anche una maggiore sensibilità sul tema e il lavoro di alcune campagne apposite – ad esempio, per scatenare reazioni più virulente, basterà citare quella della Open Society di George Soros (proprio lei, proprio lui) che negli ultimi giorni ha annunciato un’iniziativa di quattro anni e 15 milioni di dollari per promuovere il ritorno in Africa del patrimonio rubato durante il colonialismo – la questione è diventata sempre più presente nel dibattito pubblico. Se ne è discusso, se ne discute ancora, sia dal punto di vista dei principi (è giusto ridare opere d’arte a distanza di decenni se non secoli?) che da quello, più concreto della realizzabilità. Sui fatti, però c’è molto poco.
Le intenzioni di Macron erano chiare: mantenere buoni rapporti di vicinato con i Paesi africani ex colonie, anche attraverso un crescente riconoscimento del valore del loro patrimonio culturale. È a questo che va ricondotta la sua promessa fatta a Ouagadougou. Il problema è che, come ricorda tra gli altri anche il New York Times, i beni culturali francesi sono considerati inalienabili per legge. Non possono essere venduti né ceduti, al limite prestati e solo tramite accordi specifici. Per cui resistituire al Benin le 26 statuette cerimoniali, custodite al museo di Parigi Quay Branly, senza che prima venga approvata dal Parlamento francese una legge che cambi il quadro della situazione appare, anzi, è impossibile.
Lo dimostra anche la celebrata restituzione del 18 novembre di quest’anno della spada di Omar Saidou Tall, capo della lotta anti-coloniale contro la Francia, al Senegal che è in realtà un prestito mascherato. L’arma, che si trovava già al museo di Dakar, resterà lì per altri cinque anni, in attesa che si approvi una legge per la sua cessione ufficiale. Anche in quel caso – parole di Edouard Philippe, il primo ministro francese – si parla di «un percorso di restituzione» ancora da intraprendere. Ma per modificare la legge ci vuole il coinvolgimento dei politici, che richiede per forza un lavoro di convincimento e di compromesso. E il report di Sarr e Savoy, che tra le varie critiche ricevute viene considerato «accademico» e «irrealistico», non ne vuole nemmeno parlare: gli Stati africani chiedono, gli Stati europei dovrebbero impegnarsi a ridare. Punto.
Le intenzioni di Macron erano chiare: mantenere buoni rapporti di vicinato con i Paesi africani ex colonie, anche riconoscendo il valore del loro patrimonio culturale
Se in Francia non succede granché, negli altri Paesi europei, invece, qualcosa si sta muovendo. La Germania ha restituito alla Namibia una croce di pietra marina e alcuni resti umani acquisiti dai tedeschi nel 1904. L’Olanda ha annunciato di voler ridare all’Etiopia una corona regale, e da New York è già arrivato in Egitto un antico sarcofago che era custodito, fino a settembre, al Metropolitan Museum. Perfino gli inglesi hanno rimandato ad Addis Abeba due ciocche di capelli tagliate da un soldato nel 1868 dal corpo dell’imperatore abissino appena deposto.
Piccole cose (sarcofago a parte) che forse indicano un cambiamento di vedute, ma che continuano a trovare forti resistenze. Prima di tutto, culturali. Certo, è evidente, come spiega la stessa Savoy, autrice del report, che «la situazione del dislocamento dei beni culturali è del tutto sproporzionata: quasi tutto è fuori dall’Africa e niente è in Africa», ci sono regolamenti e prese di posizione che vanno in senso contrario.
Il British Museum, per fare un esempio, possiede più di 70mila reperti dall’Africa subsahriana e non considera, per legge, la possibilità di restituirli. Permette, però, di prestarli, anche a lungo termine, ad altre istituzioni. Ogni collezione del museo, spiega il direttore, trova valore nella sua ampiezza, nella sua complessità e nella sua unità, ed è vero. Non è la cosa in sé, è il suo contesto (anche se, viene da chiedersi, quale sarebbe il miglior contesto dei marmi del Partenone se non il Partenone stesso?). Per questa ragione ci si muove creando partnership e accordi con altri musei del mondo, attraverso incontri, discussioni e iniziative specifiche per ogni reperto. Una procedura non univoca, insomma, che segue caso per caso la riconsegna (e le sue modalità) dell’oggetto, sembra quella prevalente.
E, a dire la verità, è al momento anche l’unica che ha portato a qualche risultato. Oltre alle restituzioni elecante sopra, del resto, ha funzionato così anche quella fatta dall’Italia all’Etiopia nel 2008, quando riconsegnò e innalzò l’obelisco di Axum (operazione comunque dovuta in base agli accordi firmati nel 1947). A promuovere l’iniziativa allora fu del sottosegretario Alfredo Mantica, molto legato alla questione africana, e il governo era di Silvio Berlusconi, installato da poco. Inutile dire che ci furono molte resistenze, anche allora. E che furono superate. Nel quadro di una nuova sensibilità, operazioni di questo tipo, pur con tutte le valutazioni del caso, andrebbero riprese, anche solo per opportunità politica: il mondo sta cambiando.