Dal che fare al dove prenotareProdi, Zingaretti e la maledizione di Gargonza

Il padre dell’Ulivo invita il leader del Pd a dire basta al «partito delle tessere» e a convocare un’assemblea aperta a tutti per parlare dei grandi cambiamenti sociali. Sarebbe la terza in tre mesi

Si potranno non condividere le scelte dell’uno o dell’altro, tra i tanti che nel corso degli anni si sono avvicendati nell’ingrata posizione, ma bisogna avere davvero un cuore di pietra per non aver mai provato nemmeno un moto di umana solidarietà per chi si trova a svolgere un lavoro al tempo stesso difficile, dequalificato e usurante come il segretario del Pd. Prendete la giornata di ieri, che pure, sulla carta, avrebbe dovuto essere una delle poche buone, all’indomani di una vittoria netta, e insperata, almeno in quelle proporzioni (in Emilia, ovviamente, ché in Calabria si è perso di brutto, ma non è il momento di pignoleggiare coi campanilismi). Ebbene, giusto ieri Repubblica lancia in prima pagina, con titoli da guerra mondiale, l’intervista a Romano Prodi, che comincia con questo perentorio invito a Nicola Zingaretti: «Convochi una grande assise aperta a tutti, dove discutere in modo libero, su come la politica deve interpretare i grandi cambiamenti della società».

Ci vuole davvero un cuore di pietra – dicevamo – non foss’altro perché, se Zingaretti volesse seguire il consiglio, si tratterebbe non della prima, e nemmeno della seconda, bensì della terza adunata del genere, in tre mesi. Dall’iniziativa bolognese che avrebbe dovuto disegnare addirittura la politica del nuovo decennio (15-17 novembre) al solenne «conclave» nell’abbazia di Contigliano (13-14 gennaio), e meno male che c’era Natale di mezzo, fino alla nuova adunata ora suggerita da Prodi. Che del resto se ne intende, avendo inaugurato un rituale molto simile (sebbene non proprio aperto a tutti) sin dal 1997, nel famoso castello di Gargonza, e avendolo ripetuto pure nel 2007, nella sobria cornice della reggia di Caserta, con il suo secondo governo (dimostrando perlomeno di non essere scaramantico, ma facendo forse un cattivo servizio alla causa, considerato che entrambi gli esecutivi caddero l’anno dopo).

Più di tutto, però, a colpire la fantasia degli appassionati era ieri il titolo dell’intervista. «Prodi: “La lezione è chiara, i dem devono aprirsi. Basta partito delle tessere”». Che era esattamente il tema su cui ulivisti e partitisti si divisero aspramente in quel primo, fatale raduno di Gargonza, la bellezza di ventitré anni fa. E in ciascuno dei successivi conclavi, congressi e convegni in cui il dibattito ha continuato a svilupparsi, più fecondo che mai. Nel 1997, a reagire in difesa dei partiti era stato Massimo D’Alema, allora segretario del Pds (pensate un po’, c’era ancora il Pds: ben due nuovi partiti fa) che se la prese con Paolo Flores d’Arcais (che però era il bersaglio di comodo, ché la polemica era diretta in realtà contro Arturo Parisi, cioè contro Prodi), consegnando ai posteri e ai retroscenisti perle memorabili quali: «Noi non siamo la società civile contro i partiti. Noi siamo i partiti». O anche: «Se c’è qualcosa che somiglia ai partiti in ciò che di nobile sono stati nella crisi attuale, siamo noi, non sono gli altri». O ancora: «Io non conosco questa cosa, questa politica che viene fatta dai cittadini e non dalla politica».

Non annoierò il lettore con l’elenco di tutte le tappe successive. Basta dire che il Partito democratico, in teoria, avrebbe dovuto nascere proprio per mettere fine a questa sfibrante discussione, riunificando tutti sotto un unico simbolo, come volevano gli ulivisti, ma pur sempre il simbolo di un partito, come volevano gli altri: con le tessere, le sezioni e tutte quelle cose lì. Ecco spiegato, in breve, il motivo per cui, quando Walter Veltroni prende la guida del processo e nell’ottobre del 2007 si fa incoronare dalle primarie, approfittandone per lanciare il partito all’americana, secondo la suggestione del «partito senza tessere» lanciata sul Foglio da Giuliano Ferrara, Pier Luigi Bersani bolla subito il tentativo come «partito liquido». E la discussione riparte, tale e quale, da dove l’avevamo lasciata a Gargonza, dieci anni prima esatti. E dove la ritroviamo altri tredici anni dopo, cioè oggi. Con l’aggravante che nel frattempo, anche grazie a quell’implacabile processo di continua fusione e rifondazione di sempre nuove formazioni della sinistra – ovviamente ciascuna più nuova, aperta e unitaria della precedente – quel poco che restava dei partiti di massa, delle loro tessere, sezioni e organizzazioni, si è praticamente estinto. Più aperti di così, gli sparuti circoli e federazioni del Pd non potrebbero essere, e se appaiono chiusi è solo perché ci sono sempre meno militanti a tenerli aperti. Ma non c’è da dubitare che anche gli ultimi irriducibili che ancora si ostinano, stoicamente e gratuitamente, a difendere il «radicamento territoriale» della sinistra, a forza di sentirsi trattare da mangiapane a ufo e ottusi burocrati, e proprio da coloro che più di tutti dovrebbero ringraziarli, finiranno per perdere la pazienza e lasciare che i protagonisti di questa infinita, surreale, sfibrante telenovela se la vedano tra loro.

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