Non è più come primaAddio alla trap, Ghali è diventato grande. E con “DNA” vuole dimostrarlo a tutti

Il nuovo disco, che prevede featuring come Salmo e tha Supreme, è un salto di livello. Apre a nuove sonorità adatte per raccontare lo smarrimento di chi è stato travolto dal successo

Che sia il suo «momento clou» lo sa benissimo anche lui. Anzi, lo dice proprio (nella canzone “Fast Food”). Per Ghali (nome intero: Ghali Amdouni) il successo è arrivato, gli ha portato soldi, gli ha permesso – come dice in una intervista – di far smettere la madre di lavorare. Lo ha reso famoso e lo ha anche fatto salire sul palco di Sanremo (cosa che non aveva mai immaginato, forse nemmeno desiderato) proprio per lanciare il suo ultimo album “DNA”, uscito il 20 febbraio dopo una campagna pubblicitaria giocata sul mistero.

E DNA è un album da momento clou. Per la qualità delle 15 canzoni, (quasi) tutte possibili hit, per la felicità delle collaborazioni (c’è Salmo, c’è tha Supreme, ma anche l’algerino Soolking e il nigeriano Mr. Eazi) e perché racconta, disseminato tra omaggi, citazioni e contaminazioni, un profondo smarrimento: «Sono diventato tutto ciò che ho sempre odiato. E mi piace» (“Boogieman”).

Se si intitola così è perché – dice – di fronte allo stordimento del successo («Ogni fra mi dice “Che c’hai, bro?”») ha reagito cercando di ritrovare le radici, che per lui sono musicalità italiane e arabe, viste la sua ascendenza tunisina. Il risultato? L’addio alla trap (e meno male), giudicata inadatta alla sua nuova vita, per veleggiare, su ritmi hip hop, fino a rive melodiche e pop pure.

In questa traversata ha chiesto una mano a un po’ di amici. Da Soolking, con cui canta (anche in arabo) in “Jennifer”, ha preso le miscele soul e raid algerine, tanto simili a quelle di un antico Daniele Silvestri. Da Stromae, da sempre una sua fonte di ispirazione, ha ricavato la base di “Boogieman” (al limite del plagio). Non mancano omaggi al blues rock – una base stile Santana, per capirsi – su cui intona insieme a uno scanzonato mr. Eazi frasi come «Cosa ci faccio sdraiato su un’amaca / forse sono stato rimandato in Africa?», come in “Combo” (sarà una hit? Scommesse aperte). E quando, ebbene sì, si apre alle canzoni d’amore, ci si ritrova catapultati nell’universo di Tommaso Paradiso (“Barcellona”), giusto con qualche Auto-tune in più. Lo struggimento è lo stesso, compresa la malinconia di una storia finita male ma per la quale riesce, con un guizzo, a far rimare «amore» con «frullatore».

In mezzo ai ritmi baldanzosi, con scelte melodiche sempre attente a essere orecchiabili e destinate a diventare popolari, si affacciano considerazioni più dure. Un po’ in ossequio alla retorica del gangster, un po’ – sembra – per sincera convinzione. Gli amici «vanno e vengono» e solo quelli veri «non ti vendono». Ma sono solo «in tre, gli altri sono conoscenti». Perché «non c’è gloria senza figli di pu***na» (“Giù per terra”). Alcuni, addirittura sono spariti «per pochi spicci» (“Fast Food”).

Ritorna poi il ricordo del padre, che «non c’è / se ne è andato via / ha pensato a sé / non è colpa mia» (“Flashback”), mentre la madre è rimasta con lui. E vivono ancora insieme, come racconta nelle (innumerevoli) interviste. Non è casuale che nel disco abbondino battute sui giornalisti, che si «moltiplicano tipo gremlins», sono incapaci, «”Ho già risposto a ’sta domanda se rileggi”» (“Good Times”) e cercano di strattonarlo nei dibattiti di attualità: «mi chiedon “Ius soli” / credo soltanto che siamo più soli» (“Flashback”).

Un ruolo da protagonista ce l’ha la droga: tema classico del trapper che ritorna di canzone in canzone, è simbolo del successo, si guadagna con “Extasy” una traccia intera e, addirittura, fornisce il linguaggio giusto per parlare di sentimenti: perché frasi come «dimmi quale effetto fai a quest’ora / se dura una vita o solo mezz’ora», o «chi ti fa / chi ti dà lezioni di chimica e di fisica / come me» non sono altro. È, a suo modo, una forma di poesia.

Il tutto viene convogliato, come un riassunto finale, in “Fallito”, ultima traccia tempestosa e cupa, che concentra l’ansia di una vita stravolta dal successo: «Non torno come prima, non è più come prima, quattro amici e una panchina», dice. E prevede separazioni, cambiamenti, solitudine. È quello smarrimento di prima, l’ansia di chi deve misurarsi con dinamiche nuove, persone diverse, dimensioni più grandi. Avrò «paura anche da grande?», si chiedeva, poche canzoni sopra, in “DNA”. Chi lo sa. Per adesso, sì. Alla sera, quando «la festa è finita», c’è ad aspettarlo un mostro sotto al letto, «ormai un amico». A lui qualcosa racconterà.

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