Finché non arrivò l’autunno in cui Ninni doveva cominciare la scuola. A Zanegrate, purtroppo. Nell’atrio la mamma non si decideva ad andare via, continuava a tenerlo per mano. Lui un po’ si vergognava di essere trattato così da piccolo, un po’ stava ben attento a non mollarla. Quando erano arrivati, quell’antro malmesso e quasi in penombra, poca luce grigia, con tutta quella gente che parlava a voce alta, non gli aveva fatto una bella impressione. Loro, lui e la mamma, pensavano che ci sarebbero stati dei cartelli, qualcosa o qualcuno per sapere dove bisognava andare. Era il primo giorno di scuola e non erano pratici. Invece niente, non c’era niente e non si capiva niente, neanche chi fosse e dove stesse la maestra della prima.
Così la mamma si era messa a chiedere, ma o non le rispondevano o la guardavano di traverso. Forse per la sua pronuncia tutta aperta, che subito la faceva scoprire come non di lì, non di Zanegrate. Adesso però bisognava sbrigarsi perché l’atrio si stava svuotando. Per fortuna un’anima pia indicò alla mamma la maestra giusta, la Colombani, che lei aveva preso per una bidella perché parlava dialetto. Era come fatta di due palle, una grande e una piccola. Tutte e due lucidissime. La grande per via di un grembiule nero di satin che la copriva completamente, la piccola – che era la testa – per i capelli unti, neri anche loro, che finivano in una pallina ancora più piccola che era la crocchia. Nell’insieme assomigliava alla Tordella, moglie del capitan Cocoricò e madre di Bibì e Bibò del Corriere dei Piccoli.
«E ches’chì? E questo qui?» disse indicando Ninni, «Ndu el ven? Da dove viene?» con la cordialità di un coccodrillo. La mamma, sollecita, declinò le generalità, la maestra Colombani fece un segno su un foglio, squadrò Ninni e disse «Via!« indicando il collettino bianco sulla blusa nera. La scuola aveva comunicato alla mamma che tutti i bambini dovevano portare una blusa nera, per non sporcarsi con l’inchiostro, dicevano. Di sua iniziativa la mamma aveva aggiunto il collettino bianco, o perché l’aveva visto su qualche rivista o perché le sembrava che stesse meglio, per ravvivare un po’. «L’è propi lì, è proprio lì, eh… che ci si sporca di più», con un tono di scherno, come rivolto a chi non capiva una cosa ovvia. Prima di andare via la mamma ci teneva a dire una cosa alla maestra, ma questa non le diede per niente retta, si avviò traballando per un corridoio grigio, in un’aria grigia, tirandosi dietro la sua coda di bambini e gridando qualcosa a una collega.
In classe Ninni venne messo nel quarto banco del terzo quartiere, come apprese che si chiamavano le file dei banchi; il primo quartiere era quello vicino alla porta, il secondo davanti alla cattedra, il terzo dall’altra parte. Non era tanto abituato a stare con gli altri bambini, almeno a Zanegrate, a Querciano era tutto diverso. Non l’avevano mandato all’asilo perché, oltre che l’estate, anche un bel pezzo d’inverno lo passava a Querciano, in modo che la mamma potesse occuparsi di sua sorella. Quindi per la prima volta si trovava da solo in mezzo a tanti altri bambini che non conosceva. In più c’era la cosa che la mamma avrebbe voluto dire alla maestra. In conclusione stava prudentemente zitto. Però guardava e cercava di capire.
La maestra Colombani parlava familiarmente, in dialetto, con un bel gruppo di bambini. Li chiamava per nome, si vede che li conosceva da piccoli; li mise nel primo quartiere. Un altro gruppetto, più ridotto, venne sistemato nel secondo, proprio davanti alla cattedra, cioè a lei. Poi ad alta voce: «Quelli che hanno la refezione si mettano in fondo, nel quinto e nel sesto banco». La refezione – gli spiegò Agnesina, il suo compagno di banco, che anche se era il primo giorno sapeva già tutto – voleva dire che non andava-no a casa a mangiare, si fermavano a scuola perché erano poveri. Le loro mamme lavoravano in officina. Invece quelli che stavano nei banchi davanti alla maestra erano i figli degli industriali, cioè dei padroni delle officine. Ma gli industriali più grossi, aggiunse Agnesina, non mandavano i loro bambini lì, alla scuola pubblica, li mandavano dai gesuiti.
Distribuiti i posti, si alzarono tutti in piedi e la maestra fece dire le preghiere. Erano quelle solite, che si dicevano anche a casa, tranne una che Ninni non conosceva, però mosse le labbra lo stesso, senza nessun suono, per non fare diverso dai compagni. Poi la maestra cominciò a insegnare come si dovevano tenere le mani, perché non era ammissibile – disse – che ognuno le tenesse come gli pareva. Mani in prima voleva dire le mani appoggiate sul banco con il palmo in giù e le braccia dritte, una di qua e una di là. Pronti a prendere la penna. Le mani in seconda erano sempre appoggiate al banco, ma tenute conserte. Le più importanti, però, erano le mani in terza, che voleva dire mani dietro la schiena, una sull’altra. Con le mani in terza nessuno si muoveva più e la classe stava bella ferma, in ordine, con le sue belle bluse nere tutte uguali. Fecero diversi esercizi, finché il cambio da «Mani in seconda!» a «Mani in terza!» diventò velocissimo, quasi istantaneo. Andarono avanti così e poi suonò la campanella. Fine del primo giorno di scuola.
da Ragazzo italiano, di Gian Arturo Ferrari, Feltrinelli, 2020
Le tappe della presentazione del libro:
Milano, 11 febbraio, la Feltrinelli Librerie, Piazza Duomo, ore 18:30. L’autore dialogherà con la scrittrice Margaret Mazzantini
Torino, 13 febbraio, Circolo dei lettori, via Bogino 9, ore 18:00. L’autore dialogherà con Ernesto Ferrero