Con la proposta del «reddito di base universale», destinato a tutti, ricchi e poveri, senzatetto e miliardari, Beppe Grillo ha rotto ieri il suo lungo silenzio. Un silenzio che aveva spinto molti ingenui a immaginare il padre del populismo italiano, fondatore di quel Movimento 5 stelle che per primo ha dato dignità politica e istituzionale alle tesi no-vax e a ogni altro genere di cospirazionismo antiscientifico, come spiazzato e ammutolito. Sopraffatto, per i più audaci forse persino visitato dall’ombra di un rimorso, di fronte a un’emergenza che ha brutalmente ricordato a tutti noi quanto possa costare ignorare l’importanza della scienza, della competenza e di un elementare principio di responsabilità (e speriamo presto pure dei vaccini).
Ma mentre Grillo taceva molti altri parlavano, e il dibattito si era già da tempo trasformato in una gara a chi la sparava più grossa (a essere pignoli, anche da prima dell’emergenza coronavirus). Così non può stupire né il merito né la tempistica della sua proposta, peraltro riecheggiata ieri dalla stessa ministra (cinquestelle) del Lavoro, Nunzia Catalfo, che ha parlato di reddito di emergenza e anche di estensione del reddito di cittadinanza.
Tutte misure che andranno valutate e studiate con attenzione, ci mancherebbe, nella drammatica situazione in cui siamo, ma che oggi si scontrano con due problemi: quello che abbiamo fatto finora, quando l’emergenza non c’era, e diciamo pure che non abbiamo fatto proprio le formichine; e quello che stiamo facendo adesso, nel frattempo, vale a dire cercare di convincere i nostri partner europei, e in particolare quelli con i conti messi assai meglio, che non hanno ragione di diffidare, che condividere rischi con noi è un vero affare, anzi, non devono perdere l’occasione, perché di noi ti puoi fidar. E senza neanche chiederlo per favore, ma alzando pure la voce, e così dando agli italiani l’impressione che l’unico ostacolo prima dell’Eldorado sia rappresentato da questa Europa ottusa ed egoista.
È sempre antipatico il ruolo di chi dice che la festa è finita e occorre tornare a casa, ma prima o poi qualcuno dovrà pur affermare un concetto tanto elementare quanto misconosciuto, almeno in questo dibattito: se non fai niente, non guadagni niente. E alla lunga non c’è prestito, eurobond, quantitative easing o altra diavoleria finanziaria che possa permettere a una nazione di tirare avanti standosene semplicemente chiusa in casa. Questo è il principale problema che abbiamo davanti, e che dovrebbe occupare il centro del dibattito: il fatto che oggi è ancora troppo presto per riaprire tutto, ma domani per buona parte delle nostre imprese potrebbe essere già tardi.
Il problema principale non è finanziario, non è insomma questione di soldi, ma di come riorganizziamo almeno parzialmente il lavoro e la vita associata per fronteggiare l’emergenza, con tutte le cautele, la gradualità e le costosissime misure di sicurezza che dovremo prendere, per tirare avanti fintanto che durerà l’epidemia. Questione decisiva, questa della durata, su cui sfortunatamente non abbiamo però alcuna certezza. Dunque, prima di discutere del dopoguerra, dovremmo discutere di come vincere la guerra, cioè di come riconvertire l’apparato industriale e un sacco di altre cose allo scopo non solo di produrre più mascherine e ventilatori, ma pure di consentire all’economia nel suo complesso di stare in piedi. Perché anche per organizzare un’economia di guerra non basta che ci sia la guerra, occorre anche che ci sia un’economia.
Il fatto che anche su questo argomento non si riesca a uscire dalle strumentalizzazioni e dalle distorsioni polemiche, dai dispettucci e dalle ripicche reciproche tra tutti i partiti, e le rispettive cordate di sostenitori anche sui mezzi di comunicazione, dà solo la misura del livello di degrado cui sono arrivati istituzioni, partiti e mass media.
A dire il vero, dopo che nei giorni scorsi il governo italiano si era attestato su una linea molto dura, a favore dei coronabond e contraria a qualsiasi forma di coinvolgimento del Mes, col pieno sostegno di quasi tutte le forze politiche e di gran parte della stampa in un empito collettivo di orgoglio nazionale, neanche fossero le radiose giornate di maggio, ieri qualche timido distinguo ha cominciato a emergere. David Sassoli ha detto al Corriere della sera che in fondo il Mes può anche andar bene, basterebbe fare alcune modifiche, e Paolo Gentiloni a Radio Capital ha aggiunto, con understatement tipicamente gentiloniano, che «il Mes non è la Spectre». Trattandosi, rispettivamente, del presidente del Parlamento europeo e del commissario per gli Affari economici e monetari, vale a dire dei due italiani più alti in grado dentro le istituzioni comunitarie, l’impressione è che sia in corso un prudente tentativo di correggere la rotta, o perlomeno i toni. Speriamo bene.
Comunque vada a finire, sarebbe già piuttosto tranquillizzante scoprire che a decidere la posizione italiana in questa difficile partita non sarà esclusivamente la guerra dei “mi piace£ tra populisti e ultrapopulisti, tra i tweet di Lega e Fratelli d’Italia contro l’Europa e le card del Movimento 5 stelle contro il Mes (o peggio, dentro lo stesso Movimento 5 stelle, fra i sostenitori di Luigi Di Maio e quelli di Giuseppe Conte). Tra le tante cose che non ci possiamo permettere, e che stiamo facendo lo stesso, questa è quella che possiamo permetterci meno di tutte: affidare a un algoritmo persino la definizione dell’interesse nazionale in una crisi in cui ci stiamo giocando, letteralmente, l’osso del collo.