Drive-inI film a cielo aperto possono salvare il cinema (e il fare l’amore in macchina)

Le sale riapriranno per ultime e per questo gli esercenti pensano a rifare i CineDrive. Biglietti unicamente online, massimo due persone per macchina e snack venduti con le dovute precauzioni

«Non vivremo più come prima, vi è chiaro?!» Splanf, splanf, splanf! Così martellano televisioni, giornali, diskjokey e perfino i vicini di quartiere che incontriamo, vinti, in fila tra forno e salumiere. Sembra d’essere tornati all’anno zero. Torneranno a fiorire perfino antichi praticabili ricreativi che ritenevamo sepolti insieme, metti, all’avanzare della tecnologia. Pensate al drive-in. Sembra stia tornando, come soluzione salvifica affinché il cinema continui a esistere. Capito bene? Il drive-in.        

Salvo rare città fortunate, Roma per esempio, che ne possedeva uno, imperiale, nel regno dell’Eur, per molti altri l’idea stessa del drive-in corrisponde a un sogno, meglio, a una cosmogonia del piacere serale a stelle e strisce, con Elvis a danzare al centro del miraggio, valga in questo senso il “Mel’s” drive-in che, simile a una stazione aerospaziale lucida dei suoi neon, lo stesso che appare in American graffiti, leggendario film di George Lucas del 1973, che idealmente ricostruisce lo splendore felice degli anni Sessanta nella cittadina di Modesto, California.

Perché il drive-in è insieme cinemondo, cinerama, kolossal, prima, seconda visione e alcova segreta, garçonnière mobile occasionale, talvolta perfino clandestina, nonostante quel maledetto cambio sempre lì in mezzo tra i sedili, con l’opportunità ulteriore d’essere serviti da una ragazza in monopattino, possibilmente vestita come una sirena-majorette, la gonnellina svolazzante da cheerleader, la bustina sul capo, il sorriso aziendale disegnato sulle labbra vermiglie, i pattini a rotelle ai piedi, proprio come quelle del nostro film.

Il drive-in è sogno, avventura che scorre intanto sullo schermo e insieme camera da letto, nel senso che talvolta, usciti di lì, se qualcuno dovesse domandarvi quale pellicola avete visto, la risposta potrebbe essere vaga e sormontata da un grande «Boh?». Al drive-in si andava, si andrà in compagnia della ragazza, a limonare, a pomiciare, a “schiniare”, a seconda del meridiano e parallelo di riferimento.

Il fatto che si torni a parlare di drive-in è un modo di dare seguito, in tempi di post-pandemia, il virus sempre incombente, alla Settima Arte, il Vinema, tutto questo ha dell’incredibile, dell’inaspettato.

Esatto, fino a pochi giorni addietro, almeno nell’Urbe, riferendosi ai resti del suo storico suo drive-in, c’era modo di immaginare il paesaggio spettrale dell’abbandono e della dismissione, un po’ ciò che Fellini scenograficamente mostra nel suo mai ultimato “Il viaggio di G. Mastorna, detto Fernet”, un ponteggio, appunto, fantasmatico dove approda l’aereo sul quale viaggiava il violoncellista interpretato da Mastroianni. E se non mi credete andate a guardare un breve film del maestro, “Block-notes e di un regista”, dove Fellini evoca, in mezzo alle rovine del set, le riprese interrotte del film mancato.

Adesso, accanto al plexiglass, materiale araldico del tempo di covid-19, lo stesso che ha ispirato l’opera di molti artisti d’avanguardia, su tutti, almeno al momento, ci giungono in mente le “Room” del greco-statunitense Lucas Samaras, appare convincente anche l’ipotesi del drive-in: ciascuno nella propria auto, nella propria bolla, un po’ come la sfera trasparente che custodisce gli amanti nel “Giardino delle delizie” di Bosch.

Sarebbe un modo per ridare all’esercente, all’attore, alle maestranze cinematografiche tutte, produttori in testa, la possibilità di tornare a esistere: chissà se già è possibile immaginare i terreni dove i drive-in saranno installati? E ci saranno nuovamente le meravigliose sirene in minigonna dai bordi fluorescenti munite di vassoio sui pattini?

Hai capito ora perché anno zero? Sembra quasi che il nastro della cinematografia si stia riavvolgendo all’indietro. Un po’ di storia, su.  È del 28 agosto 1957 il taglio del nastro del primo cinema drive-in italiano, a Casal Palocco, luogo citato perfino da Nanni Moretti in un suo film diaristico, la strada per Ostia. Uno schermo in cemento di 540 metri quadrati, il più ampio d’Europa.

Le sale, sicuramente, saranno tra le ultime attività a ripartire e, c’è da giurare, non avverrà di certo durante le prime settimane della cosiddetta Fase 2. Per questa ragione una cordata di enti, associazioni e di esercenti, ha lanciato il progetto CineDrive. Dicono che sarà l’unico possibile modo per godere un film su grande schermo durante la prossima tribolata estate.

Il gigantesco schermo di cemento è ancora lì, abbandonato, a Casal Palocco, il campo coperto di erbe, condannato all’abbandono. Sia detto per inciso, il primo film laggiù proiettato, “La nonna Sabella”, mostrava Tina Pica, Peppino De Filippo, Sylva Koscina e Renato Salvatori.

Fonti cronistiche ci ricordano che il drive-in ha visto la sua riapertura occasionale nel 2015, per due uniche serate, il cartellone filogicamente proponeva “American Graffiti”.  

Se mai dovesse risorgere, si vocifera di biglietti unicamente online, «massimo due persone per macchine e snack venduti con le dovute precauzioni», misure intraprese per evitare il «contatto sociale», non il contratto, si badi bene. La possibilità che l’auto si trasformi in “scortico” d’amore tra primo e secondo tempo resta comunque assicurata.

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