Nuova normalitàGuarire non basta, la vita dopo il coronavirus può diventare un calvario

I danni all’organismo causati dalla malattia e dalla terapia intensiva rischiano di rimanere a lungo. Debolezza muscolare, complicazioni agli organi, rischi più alti di crisi cardiache (per chi aveva patologie preesistenti). Cui si sommano problemi neurologici e sintomi depressivi

AFP PHOTO /US NAVY/BARRY RILEY/HANDOUT
AFP PHOTO /US NAVY/BARRY RILEY/HANDOUT

Per chi riesce a guarire dal coronavirus, senza dubbio, il peggio è passato. Ma non è detto che il ritorno alla vita di prima sia vicino. Il percorso di riabilitazione, soprattutto per chi ha dovuto affrontare un ricovero in terapia intensiva, è lento e graduale. E a volte potrebbe lasciare danni molto profondi.

La polmonite interstiziale da coronavirus, che costituisce la principale causa di morte da Covid-19, è una patologia molto subdola e debilitante. Nelle sue forme più violente mette a dura prova l’organismo, anche arrivando a estendere l’infezione ad altri organi, come cuore, fegato reni e cervello (con ricadute neuronali).

Se si tratti di danni permanenti, «è ancora presto per stabilirlo», spiega a Linkiesta Paola Pedrini, segretaria regionale per la Lombardia della Federazione Italiana dei Medici di Medicina Generale, «È una malattia nuova, serve del tempo per poter valutare i suoi effetti nel lungo periodo». Al momento sono state riscontrate nei pazienti guariti «fibrosi polmonari, episodi di lombosciatalgia (che interessa il quadro neurologico) ma si tratta soprattutto di sequele della malattia».

Quello che è certo è che permane «una grande stanchezza», risultato della grande battaglia sostenuta dal fisico contro la malattia e, come si vedrà, anche della lunga terapia intensiva. In generale, i danni del Covid possono essere estesi: oltre all’astenia, si riscontra la perdita (temporanea) di gusto e olfatto, difficoltà nell’orientamento e nel recupero emotivo.

Sulla loro durata è difficile giudicare. Ma guardando agli effetti lasciati da altre gravi polmoniti, come si scrive in questo articolo di Science, è possibile che ci voglia molto tempo. Soprattutto nei casi in cui, all’infezione, si combinano patologie già preesistenti: per un anno aumentano di quattro volte rispetto agli individui sani della stessa età i rischi di attacchi cardiaci, ictus e malattie dei reni. Condizione che permane, nei nove anni successivi, ma con un aumento ridotto: “solo” 1,5 volte in più.

A tutto questo si sommano gli effetti della terapia intensiva, soprattutto quando prolungata. Impiegata nei casi più gravi per aiutare la respirazione, richiede l’impiego della sedazione (necessaria per poter sopportare la respirazione meccanica) e impone dei tempi di allettamento piuttosto lunghi. Secondo le prescrizioni generali, non si dovrebbero superare i dieci giorni, ma con il Covid si sono spesso raggiunte le due settimane.

Più dura la degenza, maggiori sono gli effetti che l’intubazione lascia sull’organismo: indebolimento muscolare generalizzato (quelli che si occupano della respirazione cominciano ad atrofizzarsi nelle ore immediatamente successive) che porta a situazioni limite. «Alcuni pazienti sembrano immobilizzati, come se fossero diventati tetraplegici», spiega a Bloomberg Hassan Khouli, della Cleveland Clinic, in Ohio.

Superata la malattia, per recuperare la funzionalità muscolare – così suggeriscono i medici – sarebbe indicata una seconda degenza, in un percorso di almeno due o tre settimane. A questa dovrebbe seguire una serie di visite di controllo. Per il momento «non ci sono protocolli» al riguardo, torna a spiegare Pedrini. «Per i casi più gravi è prevista una tac per la visita pneumologica».

Il paziente guarito tornerà a casa e, secondo alcune indicazioni dovrà controllare la febbre (se sale nei primi tre giorni è un problema), tenere osservata la frequenza degli atti respiratori (meno di 22 al minuto) e la saturazione dell’ossigeno (96 per i sani, 92 per chi aveva già una patologia prima del Covid). Il tutto facendo i conti con la quarantena, cioè con le limitazioni ai movimenti e soprattutto ai contatti che sono ancora in vigore.

È una fase delicata, soprattutto perché tra gli effetti del virus (e dei farmaci utilizzati per la sedazione) si aggiungono forti problemi cognitivi, stato confusionale, amnesie. A cui si potrebbero sommare, con molta probabilità, ricadute psicologiche di lungo periodo: un terzo delle persone colpite dalla SARS (la prima) aveva sviluppato, per almeno un anno dopo la terapia intensiva, forti sintomi depressivi e ansia.

Serviranno trattamenti personalizzati, cure per il recupero psico-fisico, molta attenzione e tranquillità. Aver sconfitto il virus, insomma, è un grande passo. Ma è solo l’inizio.

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