Passato un mese dal mancato accordo dal cosiddetto OPEC+ (ossia, i produttori di petrolio del cartello più la Russia), e trovato, dopo il crollo del prezzo de “l’oro nero” un nuovo accordo, che però non ne ha risollevato il prezzo, aggiorniamo quanto delineato già al tempo. Per decenni l’Arabia Saudita ha provveduto a mantenere il prezzo del petrolio entro una banda di prezzi che consentiva di avere un qualche equilibrio tra la produzione e la domanda. Ciò era reso possibile dal mantenimento di una capacità produttiva maggiore di quella che era effettivamente usata. L’Arabia era lo swing producer. Se i prezzi del petrolio scendevano, i sauditi tagliavano la produzione (riducevano l’offerta) e quindi li facevano salire, così mantenendoli nei limiti della banda; se i prezzi del petrolio salivano, i sauditi aumentavano la produzione (aumentavano l’offerta) e quindi li facevano scendere così mantenendoli nei limiti della banda.
Da qualche tempo i sauditi sembrano perseguire una strategia diversa. Invece del ruolo di “placido” regolatore di prezzi, ne hanno scelto uno “aggressivo”. Come? Aumentando molto l’offerta, come avvenuto nell’ultimo mese, oppure non tagliando abbastanza l’offerta come sembra che possa accadere da ieri. Con la domanda mondiale che cade molto, soprattutto per l’effetto depressivo del coronavirus, un’offerta di petrolio che non sia “striminzita” fa crollare i prezzi oppure li mantiene depressi.
Lo scopo della strategia saudita – pur articolata con modalità differenti negli ultimi tempi, non è nuovo: mettere fuori mercato i produttori che hanno dei costi maggiori dei loro, e rallentare l’adozione delle energie alternative. Cerchiamo allora le origini del cambio di strategia, da quella “placida” di un tempo a quella “aggressiva” di oggi. Il mutamento si presta a diverse interpretazioni.
Quella del complotto: i sauditi e i russi hanno messo in piedi un “teatrino” – prima litigando e poi trovando un accordo, che aveva lo scopo di confondere le idee intanto che entrambi perseguivano il vero scopo comune che è quello di fare cadere i prezzi, ciò che sarebbe avvenuto perché i russi e i sauditi non avrebbero tagliato la produzione in misura tale da far fronte del crollo della domanda.
Far cadere i prezzi e tenerli depressi era uno scopo comune per un altro scopo altrettanto comune. Mettere in ginocchio la produzione statunitense di petrolio estratto frantumando le rocce. Lo shale oil ha, infatti, dei prezzi di produzione molto elevati e con i prezzi bassi non è economico estrarlo. Gli Stati Uniti, grazie allo shale oil, sono passati da una produzione pari alla metà circa di quella saudita e russa ad una produzione di poco maggiore, ciò che ha capovolto i vecchi equilibri del mercato delle energie non rinnovabili.
Va ricordato che i complotti – immaginati o veri, che siano, che coinvolgono i sauditi e i russi hanno una lunga storia. Negli anni Ottanta si diceva che i sauditi fecero cadere il prezzo del petrolio (aumentando la produzione) per mettere in ginocchio l’Unione Sovietica, allora impegnata in Afghanistan. Negli anni Novanta si diceva che i sauditi fecero salire il prezzo del petrolio (riducendo la produzione) per rimettere in piedi la Russia non più Sovietica per evitare la crisi di una potenza nucleare.
Quella del cambiamento climatico. La spinta secolare è verso l’uso delle energie rinnovabili. Se i sauditi (insieme ai russi) riuscissero nel periodo della transizione dall’energia non rinnovabile a quella rinnovabile, a “mettere le mani” su quanta più produzione possibile (facendo fuori in una qualche misura gli altri produttori), ecco che avrebbero portato a casa tutta la ricchezza possibile prima della forte riduzione della rendita petrolifera. Quale che sia la “vera” strategia dei sauditi, resta da chiedersi quale probabilità abbiano di ottenere gli scopi voluti.
Per quanto tempo i sauditi possono resistere dal momento che il loro bilancio pubblico va in pareggio con il barile a ottanta dollari, quindi a più del doppio dei prezzi correnti? Le immani ricchezze finanziarie di cui dispongono sono sufficienti per una guerra dei prezzi che potrebbe essere prolungata? Le immani ricchezze finanziarie saudite – le attività estere che detengono, per essere usate durante la guerra dei prezzi in corso, devono essere vendute sui mercati finanziari. Ciò che diventerebbe una pressione al ribasso dei prezzi delle attività finanziarie proprio nel momento in cui si palesa nei mercati la crisi da corona virus.
La storia della guerra dei prezzi non finisce solo nello scontro sui prezzi del petrolio, ma ha degli “effetti collaterali” di grande rilevanza. Quasi tutti i Paesi petroliferi minori (quindi a esclusione dei maggiori, dell’Arabia, della Russia, e degli Stati Uniti) chiudono i loro bilanci statali con un prezzo del petrolio dai cinquanta ai centoventi dollari al barile. Con la guerra dei prezzi in corso non avrebbero quindi modo di pagare il consenso politico che comprano con una spesa pubblica non finanziata dalle imposte.
Inoltre, questi Paesi sono quasi tutti indebitati in dollari con il sistema finanziario dei Paesi ricchi. L’industria finanziaria è di suo malmessa per le vicende del corona virus, dunque ci manca solo un crisi del debito dei Paesi petroliferi. In conclusione, la strategia saudita (e forse anche russa, se è vero hanno un obiettivo comune) potrebbe (forse) portare loro dei vantaggi, ma intanto genera degli svantaggi per gli altri.
Torniamo la cronaca. Alla fine sembra che giovedì si sia stato trovato un accordo. I sauditi e i russi tagliano la propria produzione per cinque milioni di barili, gli altri Paesi dell’Opec per altrettanto. Gli Stati Uniti sono invitati a tagliare, in quanto grande produttore, ma affermano che hanno tagliato di fatto per la caduta dell’offerta dei produttori shale, messi in crisi dai prezzi in caduta. Un taglio della produzione di questo tenore, anche se attuato, è a fatica eguale alla caduta della domanda dovuta alla crisi da corona virus. Ergo, i prezzi del petrolio non cadono, ma neppure si risollevano.