Niente app e tamponi a tappeto, ma un semplice sistema probabilistico per misurare l’effettiva entità del contagio, considerando anche gli asintomatici. È questa la proposta di cinque statistici, tra cui due ex presidenti dell’Istat (Giorgio Alleva, Giuseppe Arbia, Piero Demetrio Falorsi, Guido Pellegrini e Alberto Zuliani) per lo sviluppo di un sistema di campionamento rappresentativo della popolazione che contribuisca a tracciare l’evolversi attuale e futuro dell’epidemia di coronavirus.
Al momento sappiamo che i dati diffusi dalla Protezione civile danno un quadro del problema sottostimato rispetto ai numeri reali, forse utile per capire quanto le terapie intensive degli ospedali siano sotto sforzo, ma assolutamente irrilevante per sapere la reale entità della diffusione dell’epidemia.
Perché al di là delle problematiche legate ai malati di Covid che stentano a farsi fare il tampone o persino ad arrivare in ospedale, il problema degli asintomatici, ovvero dei contagiati che non sanno di esserlo, è di gran lunga più grave. Gli occhi, infatti, sono finora stati puntati sui malati ufficiali, ma questi sono solo la punta dell’iceberg.
La malattia non porta automaticamente ad essere ospedalizzati o in terapia intensiva. Ne consegue che questi casi “nascosti” costituiscono l’assoluta maggioranza. Secondo Alberto Zuliani, ex presidente Istat sottoscrittore della proposta, il numero di casi positivi è realisticamente «tra 5 e 10 volte superiore» rispetto ai numeri ufficiali della protezione civile.
Il numero di vittime reali in Italia di questa pandemia rimarrà di fatto incalcolabile anche a causa dell’enorme numero di persone morte senza essere state ufficializzate come positive al Covid. «Ci sono segnali positivi che sono promettenti, ma non si sa se ci sarà una seconda ondata e nemmeno è possibile stimare il numero dei guariti, così come quello degli immunizzati, perché non si sa se dopo aver contratto l’infezione ci si immunizzi in modo permanente o no», spiega a Linkiesta Zuliani.
Questo un problema per il futuro, ma dà conto anche degli errori fondamentali commessi all’inizio dell’esplosione dell’epidemia, non soltanto in termini di prevenzione sanitaria, ma anchedi previsione statistica vera e propria. «Ci si è basati su un campione di convenienza, quello degli ospedalizzati e dei riconosciuti ufficialmente come positivi tramite tampone, ma quei dati non sono affidabili», spiega Zuliani. Infatti, «appena si è aumentato il numero dei tamponi fatti, è aumentato anche il numero dei contagiati».
In questo senso continuare a basarsi unicamente sui tamponi ai sintomatici è irrilevante rispetto a qualsiasi capacità di previsione futura. E poco conta in questo senso che l’Italia sia il secondo paese al mondo ad averne fatti di più. Una tendenza che potrebbe forse rassicurare psicologicamente, ma nella realtà si scontra con la matematica dei fatti.
Anche la valutazione dell’indice di contagio, il noto R0 citato da Giuseppe Conte, cioè il criterio con cui si misura la trasmissibilità, «è stimato in una forchetta tra 0.2 e 0.8. Tutti siamo contenti che sia sotto 1, ma c’è differenza se è 4 volte maggiore», spiega l’ex presidente Istat. «Solo un campione probabilistico, fatto sia sui sintomatici che sugli asintomatici, è veramente indicativo dello sviluppo dell’epidemia».
Ed è quello che infatti propongono gli statistici. Un modello che per la verità hanno suggerito fin da fine marzo, ma che finora è stato ignorato dal governo. Eppure consentirebbe di raggiungere diversi obiettivi: «Monitorare l’evoluzione del fenomeno e stimarne le modalità di diffusione; stimare correttamente il numero effettivo dei contagiati e della popolazione immune, i tassi di asintomaticità, guarigione e letalità; valutare l’effetto dell’introduzione o rimozione di misure restrittive; orientarne i tempi nelle diverse fasi dell’evoluzione dell’epidemia; prepararsi ad affrontare in modo informato le prossime prevedibili epidemie/pandemie», si legge nel documento.
Ecco come funziona: si prevedono due campioni complementari, il primo composto dai casi Covid positivi conclamati (cioè quelli a cui è stato fatto il tampone), che siano ricoverati in ospedale o in quarantena al proprio domicilio. Da questi si risale ai contatti che queste persone hanno avuto nei 14 giorni precedenti, provvedendo a fare il tampone anche a quelli (si stima che siano circa 25 per ciascun positivo).
Il secondo campione, invece, dà conto della situazione per l’intero paese. Si tratta di estrarre un paniere di popolazione diversa da quella del primo gruppo, che comprenda persone sane, guarite, immuni, asintomatiche e potenzialmente incubatrici del virus. Questi andrebbero seguiti con tamponi regolari, circa ogni 14 giorni, per capire come possa evolvere l’epidemia.
In entrambi i casi, il campione di persone da testare sarebbe casuale e probabilistico, sulla base di quattro categorie: gli ultrasessantenni (che si sa essere più a rischio) e gli under 60, più due sottogruppi, da un lato quelli che hanno frequenti rapporti sociali, dall’altro coloro che vivono una vita più ritirata.
Basterebbero poche migliaia di persone e di tamponi per far partire il campionamento, che comunque sarebbe rappresentativo della penetrazione del virus tra la popolazione. «In tutte le rilevazioni statistiche c’è un margine di errore, ma questo sarebbe estremamente ridotto e le stime sarebbero affidabili, soprattutto via via che si aumenta la numerosità del campione», spiega Zuliani.
Ora, il governo ha annunciato di voler fare un’operazione simile, prendendo 150mila unità su cui fare un test sierologico per valutarne il tasso di immunizzazione, in collaborazione con l’Istat. «Finalmente si sono ricordati che quest’istituzione esiste», commenta Zuliani. «Mi stupisce che nella task force dati prevista dal decreto Cura Italia il presidente dell’Istat non fosse nemmeno stato nominato. In molti paesi i direttori statistici non sono stati previsti, invece sono la magistratura del dato. Sarebbe importante che fossero coinvolti».
Ma se l’indagine sierologica costituisce un elemento importante per capire meglio le probabilità di immunizzazione della popolazione, d’altra parte «i risultati si avranno a distanza di tempo, forse di parecchi mesi». In più, quel campionamento non costituisce un’alternativa al modello proposto dai cinque statistici, che prevede comunque una mappatura virologica.
«Non si dovrebbe prevedere solo un esame sierologico, ma anche virologico. Se dovesse venire una seconda ondata di contagi, i test virologici sarebbero importanti per poter fare immediatamente delle analisi di contrasto», puntualizza Zuliani.
Secondo quanto riportato nel documento, infatti, «non ci si può limitare a misurare in modo accurato il numero dei contagi, dei ricoveri e dei loro esiti, i risultati dei tamponi e degli esami sierologici, ma occorre fare luce sulle caratteristiche individuali, famigliari e di contesto che possano favorire o ostacolare l’infezione e valutare correttamente l’effetto degli interventi adottati per modificare l’evoluzione del fenomeno».
Senza questo quadro, è impossibile sapere se le riaperture previste a partire dal 4 maggio siano effettivamente misurate o meno. «È troppo tardi per calcolare i rischi della riapertura, anche con questo campione, perché sarebbero necessarie almeno 4 o 6 settimane per ottenere un paio di punti di osservazione», commenta Zuliani. «Neppure gli epidemiologi danno certezze sul rischio. Si dice che la forchetta è tra 0.2-0.8, ma nessuno dice che il rischio è annullato.
Occorrerebbe che non ci fossero più contagiati, che si azzerasse la mortalità, che tutti guarissero, che in ospedale non ci fosse più nessuno con il Covid». Quel che è certo, però, è che «avere ora un quadro affidabile dell’evoluzione dell’epidemia consentirebbe di prendere decisioni migliori. Come cittadino, se io avessi un’informazione più esauriente, avrei atteggiamenti diversi nei confronti delle restrizioni. Avrei la certezza che le decisioni sono fondate su informazioni affidabili», dice Zuliani.
L’approccio scientifico che dovrebbe essere alla base delle misure prese dal governo, elemento finora più volte sottolineato dal presidente del Consiglio, cade quindi di fronte all’evidenza di un metodo che sarebbe stato (e sarebbe tuttora) tanto più essenziale quanto più è stato assente fin dall’inizio dell’emergenza.
«Noi rischiamo di entrare nella fase due come se stessimo guidando un’automobile ad occhi chiusi», dice a Linkiesta Marco Cappato, tesoriere dell’Associazione Luca Coscioni, che nei suoi webinar del sabato mattina ha ospitato l’intervento degli statistici dietro al modello. «Possibile che a Milano sappiamo che una percentuale consistente della popolazione potrebbe avere il coronavirus, ma non sappiamo se sia il 5, il 10 o il 20%? Come si fa a governare il distanziamento sociale?».
Per Cappato, quella dei dati è una vera e propria emergenza. «Abbiamo delle stime sul reale numero di contagiati che oscillano di ordini di grandezza, superiori fino a dieci volte tanto rispetto ai numeri ufficiali. In Italia potrebbero esserci fra i 3 e i 12 milioni di contagiati. È impossibile prendere misure sul contenimento di un virus senza sapere se quel virus ha contagiato centinaia di migliaia o molti milioni di persone».
Quella di Zuliani e degli altri statistici sarebbe una risposta pronta e concreta al problema delle stime. «La proposta di Zuliani è stata lanciata a metà marzo e poi formalizzata a inizio aprile. È immediata, agile, non sostitutiva dell’indagine sierologica prevista dal governo, e serve ad avere una reale stima della situazione. Ma non ci sono stati riscontri da nessuno. Non capisco perché non si faccia e soprattutto perché non si spieghi il perché», dice Cappato.
La misura del problema è aggravata dal fatto che i numeri di cui si ha conoscenza non vengono diffusi. «I regimi autoritari hanno il loro modo di gestire le emergenze, che si basa sulla segretezza, sulla coercizione, sul segreto di stato e sulla manipolazione. Oggi i dati sulla base dei quali la protezione civile lavora sono segreti. Pubblicano i dati che ritengono di pubblicare.
Ma in democrazia è fondamentale che si sappia il più possibile dei fenomeni, e che lo sappiano i tecnici, i politici che devono decidere, e anche i cittadini. Perciò noi sottoscriviamo la richiesta della presidente della Società italiana di statistica, Monica Pratesi, perché siano messi a disposizione degli scienziati i dati della protezione civile».
Si tratta di un tema non da poco, perché si lega ad una gestione dell’emergenza che, nei fatti, ha sospeso la democrazia in Italia. «Più l’emergenza si protrae, meno si giustifica la sospensione della vita democratica», conclude Cappato. «E non si tratta solo del parlamento marginalizzato, svuotato dalle cabine di regia che sono state create, che vota provvedimenti blindati.
Possibile che si parli di smart working per consentire di svolgere le attività da casa, e che l’esercizio degli strumenti per la partecipazione dei cittadini in via telematica non entri nemmeno nell’agenda delle forze politiche? Che si parli di creare le condizioni di sicurezza per esercitare la libertà religiosa, e che non si considerino anche per esercitare il diritto costituzionale delle libertà politiche? Sarebbe come considerare la democrazia un lusso che possiamo sospendere. Mentre è proprio l’emergenza che rende necessario l’esercizio dei diritti democratici. Non contro il potere, ma per aiutare a prendere le decisioni migliori possibili».