Il certificato di nascita di Esther Safran Foer era sbagliato. Non era giusto il giorno, non era giusta la città e nemmeno la nazione. Tutte bugie inventate dal padre per ragioni molto gravi.
«Ci ho messo anni a capire come mai si fosse inventato quelle cose», confessa l’autrice (che è anche madre dello scrittore Jonathan Safran Foer), all’inizio del suo libro “Voglio che sappiate che ci siamo ancora” (Guanda) a metà tra il memoir e il resoconto di un viaggio.
Si tratta della spedizione che ha fatto nel 2009, dagli Stati Uniti fino in Ucraina, con qualche fotografia in mano e delle dritte non si sa quanto affidabili.
Voleva ritrovare gli shtetl, i villaggi ebraici della prima metà del ’900, da dove era fuggita la sua famiglia, per ricostruire la storia dei genitori.
Voleva anche incontrare (ma chi ci sperava?) anche le persone che, durante la fuga dal nazismo, li avevano tenuti nascosti.
«Sono stata molto fortunata», riconosce, mentre conversa con Linkiesta da Washington, in piena pandemia. «Onestamente non mi aspettavo di trovare nulla, anche se dopo il libro di Jonathan ero venuta in possesso di qualche nuovo indizio».
Il libro cui si riferisce è il celebre “Ogni cosa è illuminata”, del 2002, in cui in forma semi-autobiografica un personaggio omonimo dell’autore Jonathan Safran Foer cerca Augustine, la persona che aveva salvato suo nonno.
Sì, la storia è (quasi) la stessa. Solo che quello «è un’opera di finzione, letteratura. Mentre il mio libro è un memoir, un resoconto di fatti veri».
Una distinzione che ai tempi era sfuggita a tante persone: «Avevano cominciato a chiamarmi da più parti, si lamentavano e volevano raccontare le cose come erano andate. Questo mi ha permesso di conoscere molte cose in più sul passato della mia famiglia».
Di solito, quando sua madre veniva incalzata da lei e dalle sorelle a raccontare i fatti della guerra, la storia cominciava ma non finiva mai. “Genug”, diceva a un certo punto, “Basta così”.
Troppo dolore. E soprattutto troppi lati oscuri, questioni rimaste in ombra che fin da giovane Esther aveva imparato a riconoscere e aggirare. Ma le nuove informazioni – e una rivelazione – la avevano convinta a partire. «Era il momento di tentare il viaggio», cioè tornare in Ucraina e provare a rimettere insieme i pezzi delle sue storie, compresa la vicenda di suo padre, che – questa la rivelazione che la fa scattare – aveva avuto una famiglia, una moglie e una figlia prima di sposarsi con la madre.
Uno shock. Chi erano quelle persone? Che fine avevano fatto? «Sono stata fortunata anche nei tempi, perché ho incontrato persone che, di lì a pochi anni, se ne sarebbero andate per sempre». Quello che ha scoperto la ha sconvolta ma al tempo stesso ha trasformato la sua vita. E così ha deciso di scriverlo in un libro.
Un vizio di famiglia, a quanto pare (oltre a Jonathan, anche i fratelli Franklin e Joshua hanno pubblicato libri). «Sì – ride – solo che nel mio caso sono io che sto sulle spalle dei miei figli, non il contrario. In ogni caso, dovevo farlo. Ogni generazione sa sempre qualcosa di meno di ciò che è successo a quella precedente».
In un certo senso, «avrei potuto anche limitarmi a trascrivere piccoli pezzi, qualche pagina, storie sparse, ma l’editore aveva fissato una deadline e io sono una che le rispetta».
Ma non è solo quello, come è ovvio. Le vicende della sua famiglia illuminano un periodo storico, aggiungono qualcosa in più a una delle pagine più buie dell’umanità.
È un’operazione di memoria, «il sesto senso degli ebrei, come scrive mio figlio», ma anche di storia. «Scrivendo riesco a collocare i ricordi in un contesto preciso, anche dal punto di vista geografico, in una zona dove nel frattempo sono cambiati i nomi dei luoghi, i territori e perfino i confini stessi degli Stati».
Così anche il rapporto tra le due cose diventa importante. «La memoria è personale, riguarda la propria vicenda familiare, le radici. Mentre la storia sembra sempre di qualcun altro. Eppure, quando le due cose si uniscono, entrambe acquistano senso. La memoria rende vera, concreta, la storia. Pensiamo all’Olocausto ai sei milioni di morti. Una cifra immane, immensa, difficile da cogliere. Ma quando ogni caso, ogni storia, vengono raccontati attraverso le singole vicende di ciascuna famiglia coinvolta, ecco: tutto torna ad acquistare un senso reale, appare vicino, si può toccare. Danno concretezza alla storia, e dalla storia ricevono un contesto». Tutto, insomma, è illuminato.
Il rischio però è che questi ricordi si disperdano con la morte dei sopravvissuti. «Vero. Mia madre è morta mentre stavo scrivendo il libro. Per questa ragione io incoraggio tutti a scrivere, a buttare giù le storie che conoscono, quelle dei nonni, dei genitori, che ricordano. Non deve per forza essere un libro, basta che ci sia una traccia, un resoconto».
Si aggiunga anche il fatto che, per lei, il viaggio non è stato solo quello compiuto in Ucraina, ma anche il periodo successivo, cioè la stesura del libro.
«È in quel momento che si ridà senso agli episodi, si trova il filo e, soprattutto, si affrontano le emozioni», la parte più importante di tutto questo cammino interiore.
«Scrivere è il più bel metodo fuori moda per inseguire i propri fantasmi». Aiuta a capirsi, a capire. E a vedere negli altri le proprie sofferenze. «Anche io sono stata rifugiata, e vedo me stessa nei volti delle persone che oggi cercano una vita migliore, o solo normale, in America».
E anche se adesso «sono tempi bui» le storie insegnano che «si può essere forti. Che le persone possono resistere a sofferenze inimmaginabili. Che siamo tutti resilienti. Anche la Bibbia, allora, non è un libro di storia, ma di storie: vicende di sopravvivenza, di amore, di legami. Ci rendono più saldi e ci fanno andare avanti».
È proprio in questi racconti il senso di quel “noi” (implicito in italiano) del titolo. Noi – umanità, noi famiglia, noi esseri umani – ci siamo ancora. E voi – antenati, familiari scomparsi, parenti rapiti dai gorghi della storia, ma anche discendenti, persone che verranno – lo dovete sapere.