L’occidente è a corto di idee, è una società decadente, ha smesso di guardare avanti, è vittima del suo stesso successo. Questa è la tesi pessimista, addirittura pre-Covid, di Ross Douthat, brillante editorialista cattolico e conservatore del New York Times, osservatore culturale dei costumi americani e recentemente della loro degenerazione trumpiana.
Le mozioni di sfiducia, i comizietti sovranisti, le manovre partitiche sono elementi surreali di fronte alle questioni decisive della nostra epoca, come quelle affrontate a torto o a ragione da Douthat nel libro “The Decadent Society: How We Became the Victims of Our Own Success”.
Dopo la copertina dell’Economist della settimana scorsa, abbiamo avviato su Linkiesta un dibattito sulla crisi della globalizzazione, pubblicando ogni giorno riflessioni e interventi su che cosa ci sarà dopo, nel caso il destino fosse segnato come prevedono in tanti.
La risposta non è facile. Nel 2016, il magazine IL del Sole 24 Ore ha pubblicato una copertina dal titolo “Che cosa c’è dopo la globalizzazione”, ma quattro anni dopo la questione non è ancora risolta, mentre il virus è diventato una delle forze principali della deglobalizzazione.
Sappiamo che il modello politico, economico e sociale della globalizzazione ha dominato gli ultimi decenni, contribuendo a raddoppiare la ricchezza nel mondo, a far uscire dalla povertà estrema quasi due miliardi di persone e ad ampliare la sfera dei diritti su scala, appunto, globale. Ma da un lustro, ormai, ci domandiamo se il sistema della “globalizzazione neoliberista”, per usare la definizione cara ai suoi detrattori, possa reggere ancora o sia sotto attacco proprio perché arrivato al capolinea.
Douthat legge le difficoltà del liberalismo e la crisi dei sistemi politici, messi in discussione dalla nostalgia reazionaria della destra e dalla politica identitaria e di genere della sinistra, come il prodotto di una società che non è più guidata da una missione, come ai tempi gloriosi dell’Apollo con cui l’umanità è andata sulla Luna (nonostante ciò che dicono certi dirigenti cinquestellisti) o come quella di proteggere il mondo libero dalle mire oscurantiste dell’impero del male.
Un aspetto interessante delle riflessioni di Douthat, ancora più di quello culturale o economico o politico, è quello dell’innovazione tecnologica perché la tecnologia è certamente progresso, è sicuramente guardare avanti, è senza dubbio scoprire nuovi orizzonti, ma sarebbe da ingenui ignorare che negli ultimi anni si è trasformata in un grande sedativo collettivo, oltre che in uno strumento di emancipazione.
Ne “Il mondo nuovo”, ha ricordato il Guardian, lo scrittore inglese Aldous Huxley spiegava che la rovina dell’umanità sarebbe arrivata proprio dalle cose che ci piacciono e che ci divertono, perché l’intrattenimento è uno strumento di controllo sociale più efficiente della coercizione. In 1984, invece, George Orwell immaginava che la civiltà moderna sarebbe stata distrutta dalle nostre paure, in particolare quelle di essere sorvegliati e di essere controllati psicologicamente dal Grande Fratello.
I due romanzieri britannici ci avevano preso entrambi, perché oggi c’è la sorveglianza individuale delle piattaforme private, quella pubblica dei regimi autoritari e ora anche quella anticovid degli stati democratici. C’è anche la posizione dominate sociale, ludica e commerciale dell’algoritmo che, secondo il Financial Times, ci rende «comodamente intorpiditi», come nella canzone dei Pink Floyd “comfortably numb”, «da una tecnologia che sostiene algoritmicamente la mediocrità».
Resta da capire se la mediocrità, l’algoritmo, il populismo e la società decadente siano il sintomo della crisi della globalizzazione oppure, come sembra plausibile, un modello alternativo. Nel qual caso, il sistema che ci ha fatto arrivare fin qui non è malaccio.