Chi può venirmi a trovare di questi tempi? I ricordi, che sono forme di me ma più stronzi, più figli di puttana (che sarei io, essi essendo figli a me), quelli bellissimi, anzi radiosi com’ero io senza remore e freni (mi credevo sfrenato nel pensiero, invece no, lo fui più nelle azioni, a ripensarci).
I ricordi: quel che la dimenticanza non ha ancora fiaccato con le sue tante prodezze su di me d’amore. E ancora mi lasciano voglioso quelle cose che la dimenticanza non ha arreso e vinte, coperte poi da un velo.
Ricordare scrivendo è scontro fisico, estetico (la messa dell’informe in forme), è ingaggio con un tuo evento che diventa opera, quindi non più ricordo ma oggetto, fuor di te e di testa, d’arte memoriale. È collezione altrui e non più tua, di te, maestro di addii, artista ossia non più in possesso delle tue facoltà, le proprietà che t’hanno messo in grado di fare qualcosa con le cose, mentali.
Fammi dimenticare, fammi tutto e totalmente, tutto, ossia fammi dimenticare te, avendomi esaurito, o rimembranza. Ma com’è la vita. Sembra una ma è un’altra, è quella che non è, come quando hai detto o è stato detto a te: una volta, una volta nella vita voglio farlo con te per dimenticare di volerlo fare con te.
Un non è, non ancora, e un non è, poi non più (tolto anche il pensiero). Sembro severo, invece no, sono brioso: nella clausura c’è una valle aprica, un’apertura. Allora: i ricordi ossia quand’ero, quand’ero quello che sono. Allora, da ragazzo: lo scavalco dei muri.
Cosa c’è di meglio? Lo scavalco è magnifico, stupendo, ti senti accavallato alla tua vita. Scavalcare muri d’orti e di giardini. Rubare limoni, rubare pomodori, l’uva. Ci sto girando intorno, non è solo questo. Ho l’anima del ladro. I libri: ne ho rubati talmente tanti che ne ho più rubati che letti. Così si fa letteratura. Rubati per commercio. Ero maestoso. Rubati perché il ricettatore li vendesse, a prezzi minorati, a poveri lettori scarsi in soldi (oh, lettori dissimili da me, che con un libro in mano non sto stare, devo, furtivo, andare).
Quasi mi dà pure un po’ fastidio questa mia mollezza altruista, ci penso adesso, non ci ho mai pensato allora.
Naturalmente ossia con naturalezza, a chi volesse incriminarmi oggi direi: lei come si permette, è opera di fantasia questa, la mia. Perché cos’è il passato se non fantasia? Mi dico bravo adesso con destrezza, per come sistemo in parole i miei misfatti.
Torno allo scavalco: i conventi, per esempio, i conventi con gli orti e i fiori nella notte estiva, quando odorano inebrianti anche le foglie delle siepi amare. Magnifiche attrattive al di là di un muro. Rubare quei fiori religiosi dal profumo d’anima esalata, quante rose che, a momenti, ci svenivo in mezzo alle rose.
Poi mi sorpresero le robuste monache, perché io non lo sapevo. Non lo sapevo che, in una notte estiva, al di là delle rose roteavano le tonache, silenziose come un leggero vento. Non so come dirlo in altro modo, quel roteare di tonache, che poi volavano anche, non so: un roteare di tonache, di monache a piedi nudi sopra un praticello, un roteare di candore, di ingenuità, letizia. Festa purissima dei sensi: questo è il miglior senso.
Ecco la valletta aprica alla quale volevo arrivare, eccola qua l’apertura del brano, la musica cambia. Mi presero per i capelli mentre annusavo rose, in due mi presero per i capelli. E per i capelli mi trainarono come un carrettino sfasciato con due giumente al tiro, mi scaricarono sulla superiora, superiora veramente in vastità e bellezza: la notte della veste con la luna del soggolo in mezzo al nero.
Mi lasciarono i capelli alla sua mano. Coi miei capelli in pugno lei sbatteva il mio viso sul suo petto come chi si percuote in pentimento. Mascalzone, mi diceva, farabutto, ladro (ah, ecco, il pentimento doveva essere il mio), parecchie volte e, via via, sembravano i nomignoli di un suo perduto amore di tipo manzoniano (nel libro che, in quei giorni, in mattinate da scolaro era di testo).
Poi sparì la tonaca d’incanto, non so come, non lo so, però d’incanto. Preso da incantamento, io, per i capelli. Si tolse velo e cuffia come una guerriera che si tolga l’elmo, con la mano libera all’indietro. Così sbattevo in mezzo a due onde di carne, naufragavo e lei, nello stesso tempo, anzi in due tempi alternati, mi affogava e però pure mi salvava, preso per i capelli. Sì, per i capelli prendeva la mia vita sbattendomela in faccia sul suo petto. E io vidi i suoi, i suoi capelli vivi, in volo a stormi e roteanti (li immaginavo a spazzola, invece erano alati a lunghe falde), finché lei lasciò i miei sentendomi domato.
Ero Palinuro a riva però in mare ancora, mi scivolavano le mani sopra i ciottoloni delle sue mammelle – sbavate della mia saliva e dei due sudori nostri – sulle quali sporgevano le teste di due chiodi della croce, conficcati al centro di due borchie, le due bronzee areole. A essi mi afferrai e essi chiodi crebbero nel palmo delle mie mani, quasi conficcandosi pungenti, inchiodandomi. Lei mi afferrò altrove e m’ebbe in pugno, e mi addomesticò.
Poi nel corso della mia vita più usuale e spiccia, mi è capitato di conoscere una fantasia d’uomini, di donne anche, come una fissa: la fantasia delle monache. Io per niente, mai pensato né fantasticato. Non io l’ebbi, esse ebbero un qualche desiderio di me. Io m’estasiai soltanto. Ma, insomma, si scrive per dire stronzate o per dire la verità?
La verità, è ovvio, la verità, sì, la verità, per sapere come veramente accadde quel che accadde. E come si scrive veloce quando si dice la verità. Senza ripensamenti. Sì, dico a me, non ripensarci. Fatti assalire ma non pensarci due volte, furono miracoli, tu apparisti a qualcosa che ti apparve. Che altro sai? Niente.
Per questo si scrive: per dire quello che non si sa, per andare a corteggiare la cosa ignota, per provare con lei la prima volta e poi, più che provarla, riuscirla, questa strabenedetta prima volta, che è o dovrebbe essere ogni volta.
Mi tremano le dita al pensiero, mi trema di voglia la mano, come mi tramava (volevo scrivere tremava, ma un errore di battitura mi svela a me stesso) nei tempi più primi la mano verso l’altro corpo, e ogni parola mi si inceppa in gola come allora; ecco perché scrivo le cose: perché è più facile che dirle.
O arrivi al godere o arrivi al piangere, così è, che sono due forme di spruzzi, di gocce di te. Ricordanze, o mie congiunte, venitemi a trovare, sì, venite. O ricordanze, capisco solo adesso come siete erotiche quando vi avvicinate a me. E io non v’ho, non v’ho dimenticato. O non ancora. (Congiunte: questo aggettivo, usato per disgrazia, non mi è parso mai così tanto bello così come m’è apparso qui, pieno di grazia).
Ah, rimembranze in testa che me la mandate fuori di testa, la testa, a girare dappertutto e nessuno mi ferma. Fermati, invece, fermati qui, hai già superato te stesso, mi dico, sennò ti viene da piangere, scrivendo in allegretto. Ah, già t’è venuto? Il velo? Il velo di lacrime? E allora fermati per questo, appunto, qui, Pasquali’.