È accaduto in Cina, in Giappone e in Italia. In Corea del Sud, addirittura, sono stati segnalati 260 casi. Pazienti guariti dal coronavirus che, a un test successivo, risultano positivi. Si sono reinfettati? Difficile. Sono sempre più numerosi gli studi che confermano, nell’organismo, la produzione di anticorpi contro il virus.
Anche il panel di esperti dell’ospedale di Seul, chiamato a esaminare i casi, ha concluso che gli episodi in questione siano da considerare “falsi positivi”. Una notizia rassicurante, perché significa che i pazienti non hanno contratto il virus una seconda volta e a poca distanza di tempo.
Resta da capire, però, perché i tamponi abbiano dato risultati sbagliati. Secondo Mauro Corrado, fellow dell’Alexander von Humboldt Foundation e ricercatore del Max Planck Institute of Immunology and Epigenetics, le spiegazioni possibili sono due.
«Nella prima, al momento del test, il paziente potrebbe avere ancora il virus nei polmoni», cioè in una zona dell’organismo da cui è difficile, a differenza della gola e delle vie respiratorie superiori, ottenere un campione con una quantità virale significativa.
In più, «nelle fasi finali dell’infezione, il titolo virale (cioè il numero di virus che infettano una persona) è soggetto ad oscillazioni», cioè aumenta e diminuisce nel giro di poche ore.
In questa situazione può capitare, a causa «della qualità e quantità del campione su cui viene condotto il test, o per un valore sotto soglia dell’esame RT-PCR [il test standard utilizzato per riscontrare la presenza del virus], o anche per errore umano, che per due volte consecutive nel giro di 24/48 ore, il risultato sia negativo».
Sono situazioni limite ma non impossibili. Secondo questo scenario il paziente non si è reinfettato, bensì non è mai guarito. E il test di controllo non ha funzionato a causa delle oscillazioni della quantità virale presente nell’organismo.
Potrebbe essere ancora infettivo? «In teoria sì», ma «il titolo virale è bassissimo, per cui è quasi impossibile». In casi del genere potrebbe presentarsi, del resto, «una recrudescenza dell’infezione, con l’insorgere di nuovi sintomi», continua Corrado. Il paziente è stato dimesso (ma non è ancora guarito) e nel suo organismo, in assenza delle terapie che tenevano sotto controllo l’infezione, il virus torna a riprodursi.
Tutti casi rarissimi, che emergono «perché il numero degli effetti e dei contagiati è, in Italia e nel mondo, molto alto» dice Corrado e, va aggiunto, anche perché l’attenzione mediatica è molto alta.
La seconda spiegazione, che è stata avanzata anche dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, è un poco diversa. In questo caso il paziente è guarito, il virus è sconfitto e la guarigione raggiunta. Solo, permangono, all’interno delle cellule dei polmoni che erano state infettate, «frammenti del materiale residuo del virus» che verrebbero espulse con più lentezza.
«Attenzione: virus non integro», specifica Corrado. «Quindi non infettivo». Del resto il test RT-PCR, quello impiegato per i tamponi, «non può discriminare tra materiale generico virale proveniente da un virus integro e da quello proveniente da virus ormai “morti”».
Nessuna reinfezione, quindi. Ma anche nessuna infezione in corso. Il paziente sarebbe un falso positivo e può tornare a circolare con tranquillità.
Questa seconda possibilità, vista con scetticismo da alcuni, avrebbe qualche riscontro documentato in uno studio (non ancora sottoposto a peer review, attenzione). «I ritrovamenti potrebbero rappresentare residui di virus non più attivo, frammenti genetici non più infettivi o virus incastrati dalle cellule immunitarie».
Insomma, dal virus SARS-COV-2 non ci si reinfetta nel breve periodo. Anche le mutazioni genetiche del virus finora riscontrate – questa la mappatura condotta dal professor Niema Moshiri dell’University of California San Diego, che e ricostruisce l’albero genealogico – non costituirebbero un pericolo.
Si tratta di variazioni piccole, che riguardano zone del virus ristrette, soprattutto ininfluenti per quel che riguarda l’infezione.
La frequenza è alta, certo, perché si tratta di un virus a RNA – quindi con un tasso di errori nel processo riproduttivo maggiore rispetto ai virus a DNA – ma non preoccupante. A seconda delle stime, sarebbe la metà o addirittura un quarto rispetto al virus dell’influenza stagionale.
D’altro canto, le ipotesi circolate negli ultimi giorni riguardo l’indebolimento del virus sono da prendere con le molle. Non ci sono dati scientifici definitivi e, soprattutto, potrebbe essere il risultato del numero inferiore di infezioni degli ultimi giorni, (conseguenza delle restrizioni) e dell’aumento dei test effettuati, con cui si raggiungono più casi, tra cui anche molti dei famosi asintomatici o paucisintomatici.
Quello che è certo è che, prima o poi, però, muterà. «Nulla esclude che in futuro possa emergere un nuovo ceppo, più aggressivo», precisa Corrado. E nulla esclude che in futuro ci si possa reinfettare di nuovo.
È un aspetto cruciale della questione, da cui dipendono la politica di contenimento del virus, il dibattito sulla cosiddetta patente di immunità (tanto sgradita all’Organizzazione Mondiale della Sanità), quello più recente sulla cura al plasma sanguigno e, in generale, la corsa al vaccino. Quasi tutto, insomma.
Come detto all’inizio, è ormai certo che i pazienti guariti sviluppino anticorpi al virus. Insieme alle varie conferme emerse finora, arriva anche uno studio americano – ancora da sottoporre a peer review – che si serve di un test sugli anticorpi molto sofisticato, in grado di limitare al massimo la possibilità di falsi positivi (all’1%).
Condotto su 1.343 persone (il più ampio, al momento), ha dato un risultato incoraggiante: anche i pazienti con sintomi leggeri sviluppano anticorpi. Resta ancora da vedere se garantiscano una capacità protettiva sufficiente (qualcuno potrebbe risultare sorpreso, ma è così: non basta che gli anticorpi ci siano, devono anche essere efficaci contro il virus). Tutti gli indizi, però, sembrano andare in quella direzione.
Ma per quanto? La memoria immunitaria nei confronti di un virus ha durate variabili. Osservando il comportamento dell’organismo nei confronti degli altri coronavirus, cioè HKU1, 229E, NL63 e OC43, altri scienziati come Jeffrey Shaman, della Columbia University, hanno notato che la finestra di protezione è «inferiore a un anno» e che a determinare la severità della reinfezione è più il corredo genetico dell’individuo che la memoria acquisita dalle infezioni precedenti.
Ma il SARS-COV-2 non è come gli altri: evolve con più lentezza, somiglia più al coronavirus della SARS che agli altri e potrebbe, di conseguenza, avere caratteristiche diverse. Anche la memoria immunitaria garantita dagli anticorpi potrebbe, come tutti sperano, essere più duratura.
Ma per saperlo, come spiega al New York Times Angela Rasmussen, virologa della Columbia University, serve pazienza. «A meno che qualcuno non abbia trovato il modo per accelerare il processo, l’unico modo per saperlo è seguire i pazienti nel tempo».
Intanto si dibatte sulle terapie. Quella al plasma, per esempio, ha suscitato aspettative e speranze. Come spiega Corrado, non siamo di fronte a una novità. «Era già nota ai tempi dell’influenza spagnola, nel 1918, ed è utilizzata in caso di emergenza».
Si preleva il plasma da un paziente guarito, la si tratta per renderla sicura dal rischio di altre infezioni e la si inocula nel paziente malato. La speranza è che tra gli anticorpi ci sia anche quello che ha sconfitto il virus.
Problemi? Il primo è che «non sappiamo con esattezza quale, o quali anticorpi siano davvero quelli efficaci». Il secondo, anche se molto marginale e poco probabile, «è che potrebbero essercene anche alcuni che, al contrario, esacerbano la condizione clinica».
Il terzo è che non è attuabile su grandi numeri: «Il numero di pazienti guariti è basso» e non tutti vanno bene come donatori di plasma. «Per questo sarebbe impossibile procurarsi quantità sufficienti per un numero elevato di malati». E quarto, «mancano i risultati di efficacia pubblici e validati dalla comunità scientifica».
Meglio allora puntare sulla loro riproduzione in laboratorio. Occorrerà identificarli, studiare la sequenza di amminoacidi che li compongono, produrli in vitro e poi utilizzarli come cura.
Anche questa non sarebbe una novità: «La tecnologia viene utilizzata per produrre terapie anti-cancro di nuova generazione», come il Tocilizumab, che «altro non è che un anticorpo monoclonale purificato», il cui target però non è un virus.
Problemi? Uno solo, ma importante: siamo sempre nel campo della terapia. «Questi anticorpi sono paragonabili a un farmaco, di cui il nostro corpo si libera dopo qualche tempo». E non offrono una protezione duratura, anzi.
Alla fine, si torna sempre lì: al vaccino. Non si sa quando arriverà, si ignora quanto a lungo potrà renderci immuni, non è nemmeno certo che arrivi.
Come spiega il dottor Carlo Toniatti, direttore scientifico dell’IRBM, l’Istituto di Pomezia che in collaborazione con Oxford sta sviluppando un vaccino, è ancora presto per dare risposte. «La sperimentazione è in fase 1. A giugno sapremo se funziona, se non funziona».
Ma è ottimista. «A settembre, con al fine della fase 2, sapremo invece se funziona bene, cioè quanti anticorpi produce, e in che percentuale, nelle diverse persone». Il campione è larghissimo: «Per la fase 1 ben 500 volontari. Per la 2 ce ne saranno 5mila», numeri inauditi per la sperimentazione di un farmaco.
Ma la protezione sarà duratura? «Chiunque dica cose ora sta inventando». Dipenderà dalla risposta immunitaria, cioè dagli anticorpi. E ci vuole tempo. Ma forse servirà vaccinarsi più di una volta. «In ogni caso ci sarà più di un vaccino a disposizione in futuro».
La corsa è aperta, i concorrenti sono numerosi, ma vista la necessità così elevata, i vincitori saranno tanti. Anzi, tutti.