Il nemico ti ascolta. No, non è una rievocazione della propaganda fascista. Quell’orribile ma efficace slogan calza purtroppo più nel mondo interconnesso di oggi rispetto alla Guerra mondiale o a quella fredda. Con buona pace della Aston Martin di James Bond, l’intelligence combatte con l’informatica le campagne che il cinema ha messo in scena a colpi di fascicoli e pistole. L’autodifesa dei confini cibernetici, per le nazioni, è l’equivalente di quelle missioni per «salvare il mondo».
L’ultimo a ricordarlo è stato in un’intervista a Repubblica il segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg. «Attori governativi e non governativi cinesi e russi hanno diffuso una massa di disinformazione e propaganda per distorcere la verità». Parole simili all’«infodemia» denunciata dall’alto rappresentante dell’Unione Europea, Josep Borrell, che due settimane fa ha ammesso pressioni diplomatiche cinesi.
Da quando la pandemia ha attecchito su suolo europeo, lo European External Action Service (Eeas) ha segnalato, e contrastato, una mole di fake news cresciuta esponenzialmente. In questi giorni, dalla sua divisione StratCom arriva un allarme: dopo settimane di bombardamento mistificatorio, già di per sé tossico per l’Europa, Russia e Cina si sono allineate.
L’agenzia fa risalire la convergenza a una telefonata ai massimi sistemi, fra Putin e il presidente della repubblica popolare cineseXi Jinping. Fra gli episodi rivelatori della nuova agenda, lo Eeas cita l’apologia della gestione cinese dell’epidemia andata in onda sulla Tv di Stato Rossiya 1. Il presentatore, Dmitry Kiselyov, rigetta così le critiche Usa: Pechino fa bene a sentirsi offesa, perché si tratterebbe di accuse prive di fondamento, come quelle subìte da Mosca per i fatti di Salisbury, l’avvelenamento col gas di un ex agente sovietico e della figlia (poi sopravvissuti). Non il migliore dei paragoni.
In contemporanea, l’agenzia RIA Novosti e Russia Today orchestravano una copertura mediatica filocinese. Titoli come «Per sopravvivere, l’America deve diventare la Cina», «Cosa stanno nascondendo gli USA?» e «La Cina è la vittima, non l’artefice della disinformazione sul Covid-19». Gli articoli rimbalzano in una costellazione globale che riverbera in anche otto lingue, italiano incluso.
«Continuiamo a vedere narrazioni cinesi e russe convergere ed echeggiarsi a vicenda – ha detto Lea Gabrielle, capo del Global Engagement Center, l’organismo del dipartimento di Stato americano per contrastare la disinformazione all’estero – Vediamo questa convergenza come risultato di quello che consideriamo pragmatismo tra i due attori che vogliono modellare la comprensione pubblica della pandemia del covid-19 per i propri scopi. Pechino si sta adattando in tempo reale e usando sempre più tecniche che sono state impiegate da tempo a Mosca. In Italia, abbiamo visto che gli account dei social media collegati alla Russia stavano amplificando i contenuti che promuovevano narrazioni pro-cinesi».
Che un «patto» esista o meno, la sintonia delle lunghezze d’onda può avere effetti di scala. Ad aprile, le falsità sul coronavirus sono state condivise 1,7 milioni di volte solo su Facebook, accumulando 117 milioni di views. Entrambe le superpotenze, va detto, hanno inviato aiuti all’Italia e ad altri Paesi in ginocchio. Dalla Russia, per esempio, 600 mila mascherine e 250 ventilatori polmonari, dei quali 150 del modello recentemente ritirato perché incendiatosi in alcuni casi.
In parallelo all’innegabile sostegno umanitario, i risvolti geopolitici. C’è la restaurazione d’immagine sul piano internazionale, ma sovente si traduce – su ambo i fronti – nel minare la reputazione degli altri giganti. Un’analisi degli attivisti di Avaaz ha indicato come italiani e spagnoli siano i pubblici maggiormente esposti alla disinformazione online. C’entrano anche i meccanismi di debunking dei social network: stanno rodando l’abbattimento dei contenuti in inglese – e se si muovono lo fanno in colpevole ritardo – ma con le altre lingue arrancano.
Anche la cancelliera Angela Merkel in un’audizione al Bundestag, mercoledì, ha riferito di possedere «prove concrete» – cioè schiaccianti – della matrice russa dietro l’«oltraggioso» cyber-attacco contro il parlamento tedesco. Era il 2015, furono trafugati oltre 16 gigabytes di dati. Fu colpita anche la casella di posta elettronica della Merkel, quella da deputato della circoscrizione Mencleburgo-Pomerania. Era gestita dallo staff: niente informazioni confidenziali.
«Da un lato, cerco di migliorare su base giornaliera le relazioni con la Russia – ha spiegato la Bundeskanzlerin –. Dall’altro, quando vediamo in quale modo stanno operando le forze russe, ci troviamo a lavorare nella tensione. È qualcosa che non posso cancellare completamente dal mio cuore, nonostante il desiderio di buone relazioni con la Russia. Mi ferisce».
Notizie contraffatte e distorsioni, ha chiarito Merkel, fanno parte di «una strategia di guerriglia ibrida con cui dobbiamo fare i conti, non possiamo semplicemente ignorarla». I magistrati federali hanno trovato un colpevole per il blitz del maggio 2015, ordinando un mandato d’arresto internazionale per Dmitriy Badin, un hacker al servizio del Gru, i servizi segreti militari del Cremlino. Mosca nega responsabilità nella vicenda. Il 29enne è ricercato anche dall’Fbi americano.
Washington vorrebbe delle sanzioni. Il Times sostiene che un terzo dei diplomatici registrati all’ambasciata berlinese siano in realtà agenti del GRU. Il giorno dopo il clamore, il Consiglio dell’Ue estende di un anno, fino al maggio 2021, le misure restrittive contro gli attacchi informatici che minaccino l’Unione o i suoi membri. Sono strumenti prevalentemente difensivi: divieti di viaggio all’intero dell’eurozona e la possibilità di congelare i beni delle persone o delle organizzazioni coinvolte.
Gli Stati Uniti nel frattempo incolpano Pechino di spionaggio sul vaccino – spingono per risposte politiche, al di là delle dichiarazioni. Ricostruendo l’affaire delle e-mail saccheggiate, il New York Times ha criticato l’ambivalenza della linea della Germania nei confronti del Cremlino, con un esempio: mentre Merkel condannava i cyber-attacchi, Dmitry Kozak, uomo di Vladimir Putin in Ucraina, riceveva il permesso d’atterrare a Berlino, nonostante soggetto a un divieto di ingresso.