La Seconda Guerra Mondiale è finita da 75 anni esatti (ma si discute sulla data: per britannici e americani è il 7 maggio, i francesi la collocano l’8 e i russi il 9). Ma alcune ricostruzioni propagandistiche hanno continuato a circolare a lungo. Anzi, circolano anche ora, rinforzate nel tempo dagli stereotipi diffusi da film e romanzi. Si tratta di revisioni di comodo, piccole omissioni, mezze verità.
Alcuni testi cercano di smontarli e uno, in particolare, come Les mythes de la Seconde Guerre Mondiale (Perrin, due volumi, 2017 e 2018) mira a farne un elenco, raccogliendo, tema per tema, interventi coordinati da Jean Lopez e Olivier Wieviorka.
Si scoprono cose curiose: che la forza delle armate tedesche era, ed è tuttora, sopravvalutata: anche le SS, considerate composte da fanatici dalle pulsioni mistiche, erano in realtà male preparate e poco equipaggiate. Si sconta, ancora oggi, il prezzo della propaganda nazista che puntava a vincere, prima di tutto, sul piano psicologico.
E che per converso, anche l’immagine di un esercito italiano composto da svogliati fannulloni, restii a combattere e tutto sommato simpatici – veicolato da decine e decine di film – punta a cancellare tutte le efferatezze commesse, con convinzione, dall’esercito fascista.
L’Italia, dopo la caduta del regime e la fuga del re, passa nel campo degli Alleati e si trova a dover ricostruire una verginità. È il mito dell’italiano “buono” contrapposto al tedesco “cattivo”: operazione incoraggiata dagli americani (per attirare la fiducia dell’Italia) e cavalcata da Roma, che riesce a sfilarsi dalla responsabilità, enorme, dei crimini di guerra nazi-fascisti – e ancora adesso se ne vedono gli effetti.
Nemmeno la Francia è esente. Il contributo fornito alle forze alleate per la vittoria è stato minimo – ma gonfiato con sapienza dal generale De Gaulle. Se nella Prima Guerra Mondiale le forze di Parigi in campo erano il 35 per cento, nella Seconda diventano il 3 per cento.
E ancora: l’idea che Hitler abbia invaso la Russia solo per battere i sovietici sul tempo era una falsità messa in giro dal regime naziste per giustificare l’attacco. Ma che permane, accettata anche dai russi.
Sono convinzioni, mitologie, idee che si sono stratificate durante e soprattutto dopo la guerra, messe in campo per giustificare scelte strategiche, cambi di alleanze, sconfitte cocenti. E poi per dare un senso al nuovo assetto geopolitico mondiale.
A questo proposito, come spiega lo storico Paolo Soddu, professore all’Università degli Studi di Torino, si può aggiungere come ultimo «il mito del “terrore della guerra”. Si impone al termine del conflitto e mira a rappresentarlo come l’ultimo possibile prima della distruzione dell’umanità».
È cosa diversa dal «pacifismo che era seguito alla Prima Guerra Mondiale: il nuovo ordine, in equilibrio tra la potenza americana e quella sovietica, era basato sull’atomica».
La paura dell’escalation militare ha la funzione di governare le fasi più calde del conflitto bipolare tra America e Russia «e al tempo stesso si traduce nella convinzione che lo scontro armato non sia più lo sbocco risolutivo delle tensioni», come avveniva all’inizio del secolo. «Il confronto si attua chiamando a raccolta tutti gli aspetti della vita quotidiana».
A scontrarsi, insomma, erano modelli di vita o, meglio ancora, «modelli diversi di globalizzazione», ciascuno con le proprie mitologie.