Affetti stabiliZingaretti chiarisce che non sta con i grillini per necessità, ma perché si trova proprio bene

Dai migranti alla giustizia, esattamente nel momento in cui i Cinquestelle danno il peggio di sé, il Pd giura eterna fedeltà al governo Conte, costi quel che costi

Filippo MONTEFORTE / AFP

Il primo e il più esplicito, come spesso gli accade, era stato qualche giorno fa il ministro per gli Affari Regionali, Francesco Boccia, con una dichiarazione d’amore d’altri tempi: «Non è ipotizzabile ed escludo categoricamente che il Partito democratico possa dare vita a un altro governo senza il Movimento 5 stelle». Ed è un peccato che nessuno a quel punto abbia provato a insistere, domandandogli se si riferisse solo alla presente legislatura o se intendesse proprio finché morte non ci separi.

Ieri però è stato il segretario del partito, Nicola Zingaretti, a mettere le cose in chiaro, ponendo il ritorno al voto come unica alternativa all’attuale esecutivo. In piena pandemia. Mentre lo stesso governo Conte ripete di non essere in grado di prevedere nemmeno se tra due settimane potremo andare a trovare un amico, e diffonde scenari apocalittici su nuove ondate ancora più devastanti della prima. Ma così va il nostro dibattito pubblico.

E tutti coloro che nel 2017 ci spiegavano come fosse impensabile aprire la campagna elettorale prima del fondamentale G8 di Taormina, peraltro uno tra i più inconcludenti della storia, si affannano adesso a ripeterci, con la stessa prosopopea e sempre in punta di dottrina, come si possa benissimo andare a votare a settembre, con una pandemia in pieno corso e una procedura di revisione costituzionale sul numero dei parlamentari definitivamente approvata dalle Camere e in attesa di referendum.

Più ragionevole, semmai, sembrerebbe l’ipotesi di un voto all’inizio dell’anno prossimo, dopo avere celebrato in ottobre il referendum sul taglio dei parlamentari (sempre augurandoci che l’evoluzione dell’epidemia lo consenta). Ma al di là delle concrete opzioni tecniche, delle schermaglie tattiche e delle dichiarazioni intimidatorie, nelle parole pronunciate o lasciate filtrare dai vertici del Partito democratico in questi giorni c’è qualcosa di più significativo che merita di essere segnalato. Ed è il tempismo.

Il senso di tutto questo attaccamento al governo Conte e al Movimento 5 stelle appare infatti con particolare nitore nel momento in cui i grillini si oppongono alla regolarizzazione dei migranti sfruttati dal caporalato e rinchiusi nei ghetti, e la ministra dell’Interno, Luciana Lamorgese, viene da tutti lodata per proposte di mediazione come quella del permesso temporaneo (giusto qualche mese).

D’altra parte, visto l’esito di simili mediazioni sugli accordi con la Libia o i decreti sicurezza, entrambi rimasti intatti, di cosa vogliamo stupirci, ancora? Per non parlare dello spettacolo offerto dal ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, e dal suo grande accusatore Nino Di Matteo, mentre questioni fondamentali come l’indipendenza e l’autonomia della magistratura di sorveglianza, i diritti dei detenuti e in ultima analisi la stessa divisione dei poteri, per non parlare della lotta alla mafia, vengono piegate alle esigenze di una guerra personale, di potere e d’immagine, che dovrebbe far vergognare tutti i componenti del governo e della maggioranza. Che invece tacciono, o svicolano.

Se persino di fronte a tutto questo il Partito democratico è capace di incatenarsi con tale entusiasmo a Giuseppe Conte e al Movimento 5 stelle, non si tratta dunque di una questione tattica, di realismo politico o di aritmetica parlamentare. Non c’è nessuno stato di necessità. Non c’è nessun male maggiore per evitare il quale il Partito democratico sia costretto a mandar giù chissà che amari bocconi.

Tanto meno la superiore necessità di allontanare dal potere Matteo Salvini, del quale continua peraltro a perpetuare tutte le politiche e i provvedimenti. Anzi, con la minaccia del voto anticipato, il Partito democratico ha compiuto ormai, anche su questo, un giro completo: ieri diceva sì al governo Conte pur di evitare la vittoria di Salvini, ora minaccia la vittoria di Salvini pur di tenersi il governo Conte.

Cambiando l’ordine dei fattori, il risultato è lo stesso: il Partito democratico non abbraccia Conte («punto di riferimento fortissimo per tutti i progressisti», secondo Zingaretti) per evitare guai peggiori, per spirito di sacrificio, perché non ci sono alternative. La verità è che gli piace abbastanza. E la controprova è data proprio dai continui altolà di Zingaretti, che seguono sempre lo stesso schema: basta litigi, basta polemiche, basta attacchi, altrimenti… (e mai: basta leggi disumane, basta giustizialismo, basta demagogia…).

Che lo scontro riguardi la prescrizione o quota cento, i decreti sicurezza, la regolarizzazione dei migranti o qualsiasi altra cosa, mai si è sentito il Partito democratico minacciare il voto per una questione di principio (o semplicemente di merito). Il punto è sempre e solo uno: non disturbate il manovratore.

A questo punto, stanco di insistere su questioni di principio evidentemente giudicate irrilevanti tanto dal punto di vista etico quanto dal punto di vista strategico, mi resterebbe un’unica domanda: siamo proprio sicuri che sia così conveniente mettere agli atti la propria totale, incondizionata, entusiastica adesione all’attuale esperienza di governo, in un momento simile?

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