Passaggio in India“A Burning” di Megha Majumdar è il capolavoro dell’anno

Un romanzo pirotecnico che, seguendo il percorso di tre personaggi, racconta speranze e ingiustizie di un Paese in continuo cambiamento. E il prezzo che si deve pagare per raggiungere il successo

Un attentato terroristico a un treno, una donna (innocente) che finisce in prigione per un post contro la polizia, e due suoi conoscenti – un transgender, un istruttore di educazione fisica – che si muovono intorno a una questione che diventa nazionale.

Una struttura semplice, ma “A Burning”, romanzo d’esordio della scrittrice indiana Megha Majumdar, è al contrario ricchissimo, complesso e, raccomandano il New York Times, il New Yorker e il Financial Times, una lettura obbligatoria.

È così. Sarà il carattere orale della scrittura – sembra di vedere scorrere i personaggi, i loro pensieri a un passo di distanza – sarà la velocità delle azioni, sarà la costruzione efficace delle interazioni tra i tre personaggi, sarà soltanto il ritmo della storia, ma il libro sprigiona energia.

A partire dalle prime frasi. « “Puzzi di fumo”, mi ha detto mia madre. Così mi sono strofinata una saponetta sui capelli e mi sono versata un intero secchio d’acqua prima che un vicino si lamentasse che stessi sprecando la razione del mattino».

L’odore di cui si parla è quello di un incendio, il fumo salito da un treno saltato in aria il giorno prima. Chi è stato? Non si sa. Chi parla è Jivan, giovane musulmana che vive in uno slum di Kolagaban con i genitori (il padre confinato a letto, la madre che lavora cucinando e venendo colazioni al vicinato), ha lasciato gli studi e spera di far carriera nel negozio in cui lavora. Compra talismani per assicurarsi il successo.

Ma non funzioneranno. Anzi, proprio nelle prime pagine commette un errore grave: dopo l’attentato, cui era presente per caso, va su Facebook, «con un telefono comprato con i miei risparmi» e scrive un commento: «“Se la polizia non aiuta persone normali come me e te, se la polizia li ha guardati morire, questo non significa che anche il governo è un terrorista?”».

No. Vuol dire solo che le forze dell’ordine la individuano, la incastrano (ha l’aggravante, ai loro occhi, di essere musulmana) e la mettono in prigione. Ci resterà per tutto il libro, mentre intorno a lei si scatenerà il pandemonio: il pubblico vuole un colpevole, i media una storia su come si possa diventare terroristi e la politica si adeguerà.

Lei, insieme al lettore, avrà modo di riflettere su ciò che ha scritto, di pentirsi, di trarre conclusioni importanti.

Ma il romanzo è anche altro, cioè Lovely, transgender (meglio definita come hijra) che sogna una carriera da attrice e prendeva lezioni di inglese da Jivan, e PT Sir, insegnante di educazione fisica (sempre Jivan era tra i suoi allievi) che dà un’imprevista svolta alla sua carriera entrando in un partito di ultradestra.

Il loro legame, con il ritmo del romanzo, si allenta, prendono strade opposte e diverse. E sopratutto, direzioni contrarie. Se Jivan con un semplice post ha distrutto la sua esistenza, gettando al vento le fatiche compiute per uscire dalla povertà, al contrario Lovely, grazie ad alcuni video su Instagram, e PT Sir con la politica, conosceranno il successo. Al prezzo di un tradimento.

Ma è la vita di oggi, sembra suggerire l’autrice, in questa India contemporanea. Raffigurata senza alcun ornamento esotico, appare spietata e ricca di possibilità, anche se del tutto priva di ciò che potrebbe essere anche solo l’ombra della giustizia.

Rimane solo il potere, che si esercita sotto ogni forma, non solo quella oppressiva della polizia, ma anche la seduzione della politica e la violenza intrinseca. In questo senso è un romanzo politico, anche se i riferimenti sono celati, da indovinare.

Alla fine, tolto il lato emotivo dei personaggi (che è comunque contenuto) rimane nelle pagine un senso di urgenza profondo.

Sembra riflettere lo spirito di un Paese che cambia in fretta e non ha tempo di occuparsi delle storie dei deboli, degli sfortunati e degli sconfitti. Come dirà Jivan di una sua compagnia di cella: «Se avesse avuto la possibilità di raccontare la sua storia, come sarebbe stata la sua vita»?

La risposta è il romanzo stesso di Majumdar. Un racconto a tratti rabbioso, a tratti compassionevole fatto a nome di chi, come Jivan, non potrà mai parlare.

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