L’uomo che volle essere ReGli Stati Generali sono stati il teatro di chi aspira al potere pur non essendone all’altezza

Dal romanzo di avventura di Rudyard Kipling si possono trarre molti insegnamenti morali anche per coloro che a Villa Pamphilj hanno ostentato arroganza senza motivi validi. Esternando conquiste dovute solo a circostanze fortunate

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Cala il sipario sugli Stati Generali che resteranno nella storia di questo Paese come una delle manifestazioni più caratterizzanti dell’inclinazione tutta italiana di gonfiare il petto ed esibirsi da balconi più o meno incardinati nella Storia, nell’aspirazione di entrare a far parte di un Pantheon dove, insieme a divinità maggiori, riposano anche quelle che nessun mito hanno ispirato.

In questi di tempi di crudo revisionismo del Colonialismo sia lecito citarne uno dei principali cantori, confidando di non essere messo all’indice da storici improvvisati e da iconoclasti di nuovo conio.

Nel 1888, anno fecondo di avvenimenti e di nascite illustri, lo scrittore Rudyard Kipling, pubblicò il romanzo d’avventura L’uomo che volle essere Re, reso famoso in epoca contemporanea attraverso la riduzione cinematografica curata da John Houston nel 1975 con un cast stellare in cui figuravano Sean Connery, Michael Caine quali co-protagonisti e Christopher Lambert nella parte del cronista della vicenda.

Rudyard Kipling, premio Nobel per letteratura nel 1907, era nato a Bombay nel 1865 in una famiglia profondamente inglese come le tante che costituirono la classe dirigente di quella “perla dell’Impero britannico” su cui regnava la Grande Elefantessa, la Regina Vittoria che diede il nome all’omonima Età, in larga parte segnata all’espansione del colonialismo britannico.

Sulla base delle teorie evoluzioniste del darwinismo sociale, cantori di quel tempo furono Edward Elgar che ne musicò gli inni trionfali, lo stesso Darwin e scrittori quali Arthur Conan Doyle e il medesimo Kipling.

In quel clima culturale, il giovane Kipling, ispirato da ideali massonici comuni a molti del suo tempo, scrisse tra i primi romanzi quello in questione, narrando di due militari britannici, Peachy e Daniel, ricercati dall’esercito per non commendevoli comportamenti, che si inoltrano nei territori del “Grande Gioco” quell’area a nord dell’India da sempre teatro di scontro tra le grandi potenze di ieri e di oggi e la cui storia dettagliata e appassionante è descritta da Peter Hopkirk nell’omonimo libro pubblicato nella collana Gli Adelphi, nel 2010.

La trama è così riassunta da Wikipedia. «Giunti nel Kafiristan, la fortuna pare subito assecondarli: assistono dall’alto all’assalto di un gruppo locale contro alcune donne intente a lavare dei panni in un fiume. Immediatamente decidono di intervenire e riescono facilmente (grazie ai fucili) a mettere in fuga gli assalitori, decimati. Quest’azione diventa un favorevole biglietto da visita agli occhi della tribù cui appartengono le donne: vengono accolti nella cittadella dal capo che subito indice una festa per loro; nella cittadella, incontrano un gurkha che aveva militato nell’esercito britannico, e che farà da interprete.

Daniel e Peachy passano a illustrare al capo tribù il loro piano, lo convincono che addestrando gli uomini all’uso dei fucili, potranno facilmente aver ragione delle altre tribù e lui acquisterà un enorme potere. Cominciano a condurre azioni di guerra invariabilmente vittoriose, conquistando ricchi bottini. Durante queste scorribande Daniel si invaghisce di Rossana, una bellissima ragazza che però lo evita; inoltre, poiché il contratto firmato con Peachy prevede che le donne siano lasciate fuori dalla loro missione, Daniel desiste dal corteggiarla. 

Divenuti capi effettivi, continuano con le loro azioni finché, nel corso di un’ennesima scaramuccia Daniel, che dei due è il più ambizioso, è colpito da una freccia ma la freccia viene bloccata da una cinghia e Daniel non subisce alcuna ferita: inizia a diffondersi la voce della sua invulnerabilità e del suo essere un dio.

Nella valle teatro di tutte queste azioni, sorge una città, la più grande, governata da sacerdoti, ed il loro capo invita Daniel e Peachy a recarsi a trovarlo; i due accettano e quando si trovano di fronte al gran sacerdote, questi, evidentemente molto pragmatico, afferra un arco con l’intento di scagliare una freccia su Daniel per verificarne l’invulnerabilità; nel frattempo l’Inglese era stato afferrato dagli altri sacerdoti e gli era stata strappata la camicia sul petto mettendo a nudo un ciondolo con il simbolo massonico.

Il gran sacerdote abbandona il suo intento probatorio quando vede che il ciondolo rappresenta la squadra e il compasso incrociati, il gran sacerdote fa vedere ai due Inglesi che su alcune pietre del tempio vi è lo stesso simbolo, che compare anche sulla porta di un sotterraneo ove rapidamente li conduce. Nel sotterraneo i sacerdoti custodiscono da almeno due millenni l’enorme tesoro di Alessandro Magno, da loro chiamato Sikander, evidentemente il fondatore della Massoneria; dalla tempo della sua morte attendono un erede che ora ritengono di aver trovato, non dubitando più della divinità di Daniel. 

Daniel e Peachy preparano rapidi piani di partenza, naturalmente carichi di tutto quanto possano prendere, peraltro non ostacolati dai sacerdoti che ritengono la cosa legittima per un erede.

Per via del suo egocentrismo e dell’incredibile serie di coincidenze fortunate, Daniel si convince di essere predestinato a regnare sul Kafiristan e pertanto sceglie di non fuggire con il bottino ma di rimanere, prendere in moglie Rossana per assicurarsi una discendenza e governare il suo regno fino a renderlo una grande potenza mondiale. Peachy non è dello stesso parere e fa preparare dei muli con la propria parte di bottino, la sua partenza è fissata subito dopo la cerimonia di matrimonio.

Rossana però non vuole unirsi a Daniel, così nel momento culminante della cerimonia nuziale ha un moto di ribellione e lo morde quando lui cerca di baciarla, causandogli una fuoriuscita di sangue; questo dimostra al Gran Sacerdote la vulnerabilità (e di conseguenza la non-divinità) di Daniel. Immediatamente Daniel viene additato come un usurpatore e la popolazione ingaggia una battaglia con la guardia personale di fedelissimi del Re.

Nonostante le guardie di Daniel siano armate di fucile mentre la popolazione ha solo qualche lama smussata, l’inferiorità numerica si fa sentire e una volta terminate le munizioni i due inglesi si consegnano al nemico. Daniel viene portato su un ponte che viene tagliato, facendolo precipitare in un burrone mentre Peachy, giudicato meno colpevole viene gravemente torturato e scacciato, naturalmente senza tesoro e senza provviste».

Peachy tornerà dopo molti mesi a Bombay e racconterà la storia a Kipling, lasciandogli un cesto contenente la testa ormai mummificata dell’amico Daniel, l’Uomo che volle essere Re.

Ho trovato attuale ed istruttiva questa storia che riassume l’arroganza di chi, pur non essendone all’altezza ma trovandosi in circostanze fortunate, coltiva l’ambizione di eternare il proprio potere, esternandolo in cornici fastose ed espressioni magniloquenti. Ne ho tratto alcuni insegnamenti morali che, nella presente situazione italiana potrebbero diventare utili spunti di riflessione per alcuni attori della scena politica.

Il primo è il convincimento che, nonostante si dica che “il grado faccia il capo” contrariamente al proverbio “l’abito non fa il monaco”, circondarsi di un’aura regale non compensa il mancato possesso di doti, abilità e carisma tipici di un ruolo di assoluto prestigio, detto meglio: la vera leadership non si inventa; la seconda considerazione riguarda la necessità di non considerare eterna la propria fortuna, al punto da pensare di consolidarla in un regno o in un partito personale; la terza, di essere consapevoli che tra un furbastro che lascia la scena alle altrui ambizioni, progettando una fuga salvifica prima o poi necessaria, ed uno che se ne fa abbagliare, generalmente quello che si salva è il secondo, portando a casa almeno la propria “pelle” per quanto malridotta; infine, ed è forse l’insegnamento più importante, che persino il gurka più fedele, ideatore e regista di magnifiche scenografie, è spesso il primo a darsela a gambe, anche se quelle gambe le deve al proprio padrone.

La favola di Kipling rimane, dunque, un grande apologo sul potere e sulla caducità delle sue effimere rappresentazioni che sembrano essere, ancora una volta, ciò che ancora oggi la politica non riesce a comprendere, condannata ad una coazione a ripetere che purtroppo semina le medesime illusioni che, quando disvelate, trasformano anche il popolo più pacifico in una folla inferocita

Rudyard Kipling morì al tavolo di lavoro nel 1936 a settant’anni, poco dopo una falsa notizia del suo decesso riguardo alla quale aveva commentato: «Ho appena appreso di essere morto dal vostro giornale: non dimenticate di cancellarmi dalla vostra lista di abbonati». Il corpo fu cremato e le ceneri sono custodite nel Poet’s Corner all’interno dell’ Abbazia di WestminsterLondra. Scelta previdente, visti i tempi confusi che ci troviamo a vivere.