Il campanile muto“Curon” e la maledizione delle serie italiane di Netflix

Nonostante le promesse, le sette puntate ambientate in Alto Adige non funzionano. Dialoghi sconclusionati e ritmi lenti. Almeno il panorama è suggestivo

Il vero protagonista di “Curon”, la nuova serie Netflix uscita il 10 giugno (sono disponibili fin da subito le sette puntate della stagione) è il campanile della chiesa – emerge dalle cupe acque del lago di Resia, in Alto Adige, che hanno sommerso il paese, ispirando i percorsi e le inquietudini dei protagonisti.

È un elemento evocativo: una leggenda narra che, nelle notti di vento, si possono sentire suonare le campane – cosa impossibile, perché sono state tolte nel 1950 – ed è un cattivo segno.

Visti i risultati deludenti, viene da pensare che siano suonate anche durante le riprese. Per presentarla si sono spesi aggettivi come “dark”, “mystery”, “soprannaturale” e anche un po’ “horror”. Addirittura, si è osato paragonarla di “Stranger Things” e di “Revenant”. Quasi un’offesa, più che un’esagerazione.

È vero che tutto si snoda con un ritorno, quello di Anna (interpretata da Valeria Bilello), al paesino delle origini, cioè Curon Venosta, determinata a liberarsi dagli incubi che la tormentano e che affondano nel suo passato. Segue il suo difficile ambientamento, l’ostilità degli abitanti, il segreto nascosto in soffitta (e dove, se no?) del padre Thomas (Luca Lionello) e la sua scomparsa improvvisa.

Intanto i figli adolescenti, che si era portata con sé, devono fare i conti con alcune scoperte. Lo si vede subito: tutto il paesaggio è disseminato di croci per tenere lontani gli spiriti maligni che provengono dal lago, che sono (lo si scopre subito) gli alter ego degli abitanti, il loro lato oscuro. Di solito sono l’horror si basa su idee come queste, al limite del ridicolo, ma che se ben maneggiate possono risultare efficaci.

Ecco, non succede. La maledizione del lago colpisce anche la serie. Scritta da Ezio Abbate (Suburra – la serie) insieme a Ivano Fachin, Giovanni Galassi e Tommaso Matano, prodotta da Indiana e diretta da Fabio Mollo e Lyda Patitucci, è finita nel calderone delle produzioni italiane della piattaforma, insieme a “Summertime”, “Fedeltà”, “Luna nera”.

Forse hanno messo troppa carne sul fuoco, visto che si ispira – così dicono – al quality horror di Jordan Peele e Ari Aster, ma non evita di indagare anche gli aspetti del “teen drama” (in questo senso è stata avvicinata all’adolescenziale“Skam”).

RIsultato? Sceneggiatura bucherellata, prestazioni al di sotto della sufficienza, dialoghi fluttuanti (per essere gentili) che aleggiano senza trovare collocazioni migliori rispetto a quella didascalica.

Esempio: i doppi cattivi che vengono dal fiume sono uguali, è ovvio, al personaggio originale buono. Ma lo devono specificare: «È uguale a quell’altro», dicono. (Lo spettatore non deve arrivarci da solo)

Oppure, vista la continua ricerca di sé da parte dei protagonisti, ricorre ossessiva la domanda «Cosa nascondi sotto la superficie?». (Lo spettatore deve meravigliarsi per la trovata che vuole sembrare in armonia con l’ambientazione lacustre).

È un peccato. Rimangono solo l’ambientazione, efficace, e il campanile, protagonista muto che forse avrebbe meritato miglior trattamento. Il suo emergere dalle acque sembra suggerire l’esistenza di un mondo parallelo, quasi una sorta di cattedrale sommersa alla Claude Debussy (qui si arriva a un romanzo, pregevole, di Marco Balzano, “Io resto qui”). Ma la realtà è molto diversa.

Sotto la superficie, più o meno come nella serie, non c’è niente. Non ci sono case, palazzi, strade. Tutto il villaggio, sgomberato nel 1950 prima dell’inondazione (che fu un evento controllato e coordinato con la costruzione di una diga) era stato fatto saltare pochi, compresa la Chiesa di Santa Caterina di Alessandria. Solo il campanile rimase in piedi.

La comunità (erano 150 famiglie) fu trasferita nel paese vicino, mentre sotto l’acqua restavano solo ricordi e macerie. Come metafora di “Curon”, ecco, forse questa è più efficace.

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