Deep State all’amatricianaDa Why Not a Rinascita-Scott, le inchieste contro il “sistema” che non c’era

La teoria dello Stato oscuro che prenderebbe le decisioni che contano alle spalle dei governi ha creato una classe di magistrati che si ergono a eroi anti-sistema, tutti (o quasi) con poca fortuna. Forse dovremmo rispolverare la vecchia idea sulla separazione delle carriere

GABRIEL BOUYS / AFP

«In questa vicenda sento molto la puzza di ‘ndrangheta, l’organizzazione mafiosa che ha la capacità di arrivare dove nessuno può immaginare… quando il ministero della Giustizia e il Consiglio superiore della magistratura misero in moto per allontanarmi dalla Calabria, 100mila calabresi, e io sono napoletano, firmarono per non farmi trasferire: avevano fiducia nello Stato, devo questo alla Calabria onesta che non è omertosa e connivente».

Commentando l’affaire Di Matteo-Bonafede, Luigi de Magistris – attuale sindaco di Napoli, ex magistrato e ormai presenza fissa alla trasmissione “Non è l’arena” di Massimo Giletti – ha abbracciato con decisione la teoria trumpiana del Deep State italiano.

Daniele Raineri sul Foglio ha spiegato che si tratta di «un termine preso in prestito dai siti complottisti per indicare un non meglio specificato gruppo segreto che si anniderebbe all’interno dell’Amministrazione e prenderebbe le decisioni che contano alle spalle dei governi. Deep, profondo, alluderebbe proprio a questa profondità tra le pieghe della macchina governativa che lo rende introvabile e misterioso».

Con parole commosse de Magistris ha ricordato la persecuzione che lui, da Pubblico ministero di Catanzaro, subì per aver indagato la sinistra: ha fatto intendere che il cambio di bersaglio – da Forza Italia all’allora Ulivo prodiano – sia stata la causa delle sue vicissitudini e della sua decisione di abbandonare la toga per abbracciare la carriera politica, che lo vede da quasi un decennio sindaco del capoluogo campano.

Nella sua classica narrazione populista, che allo “Stato oscuro” contrappone l’eroe buono inviso a tutti i generi di poteri forti, alla destra come alla sinistra, de Magistris è necessariamente un uomo “contro”.

Il sindaco è a suo agio nel ruolo e sembra farsi anche portavoce del grande nemico per eccellenza del “Deep State Tricolore”, Nino di Matteo: l’eroe del processo sulla trattativa, reiteratamente impallinato sulla strada del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap), per motivi oscuri che lui forse un giorno rivelerà.

Qualcuno potrà ricordare che il modello degli eroi di oggi, Giovanni Falcone, di bocciature ne ingoiò molte dai colleghi, ma nessuno se lo ricorda andare a lamentarsi in tv o raccontare teorie complottiste. Fino alla sua tragica fine, mai un lamento o un pigolio.

Intanto parla de Magistris, che dietro il presunto ripensamento di Bonafede sente «puzza di ‘ndrangheta». Di particolare fiuto giudiziario il sindaco di Napoli non ha mai dato prova, una caratteristica che condivide con alcuni altri teorici della teoria dello “Stato oscuro”. Ma la cosa non ha minato né la sua fortunata carriera politica né la fama di altri suoi ex colleghi a cui il ruolo di eroe anti-sistema sembra non dispiacere.

È dunque interessante una ricostruzione della sua storia che si basi sui dati accertati da fonte non sospettabile, come sono due sentenze della Corte di Cassazione (n. 49538/15 e 43644/19) da cui poter ricostruire la realtà e non la leggenda.

La prima sentenza nel 2016 ha annullato su ricorso delle parti civili la sentenza che aveva assolto de Magistris e il suo consulente di fiducia in materia di intercettazioni, Gioacchino Genchi, titolare di un fornitissimo archivio con cui poteva risalire alle utenze di gran parte dell’establishment italiano dell’epoca.

Una premessa necessaria: a ricorrere erano stati Genchi e le parti civili (non de Magistris già approdato in politica e divenuto sindaco), l’annullamento dichiarato dalla Cassazione riguarda il danno e il relativo risarcimento richiesto dalle parti offese che sono molte e di gran nome, e fanno una certa impressione.

Come precisa la sentenza della Cassazione, de Magistris come Pm titolare dell’indagine e Genchi come suo esperto in materia di intercettazioni (ritenuto un vero e proprio mago della ricostruzione dei tabulati) erano accusati di «aver acquisito, elaborato e trattato illecitamente i tabulati telefonici relativi a utenze riconducibili ai parlamentari o ex-parlamentari Giuseppe Pisanu, Sandro Gozi, Romano Prodi, Clemente Mastella, Antonio Gentile, Domenico Minniti, Francesco Rutelli e Giancarlo Pittelli, in violazione della disposizione di cui all’art. 4 della legge 20 giugno 2003, n. 140, che prescrive la preventiva richiesta di autorizzazione a tal fine alla Camera di appartenenza, intenzionalmente arrecando ai medesimi un ingiusto danno consistente nella conoscibilità di dati esterni di traffico relativi alle loro comunicazioni in violazione delle garanzie riservate ai membri del Parlamento».

C’era un bel pezzo del gotha della sinistra, ma non solo. All’epoca (2007) era pure un pezzo del secondo governo Prodi, che crollerà di lì a pochi mesi: un anonimo procuratore di Santa Maria Capua Vetere, al contrario di de Magistris, arresterà Sandra Lonardo, moglie del ministro di Giustizia Mastella e presidente della Regione, e indagherà lo stesso guardasigilli nientemeno che per concorso esterno in associazione a delinquere e concussione ai danni dell’ex sindaco di Napoli Antonio Bassolino.

Fine del secondo governo Prodi. Può sembrare superfluo, ma di quelle accuse oltre dieci anni dopo non è rimasto nulla in piedi.

Le uniche eccezioni di schieramento erano quelle di Giuseppe Pisanu ex ministro dell’interno del secondo governo Berlusconi e di Giancarlo Pittelli, avvocato calabrese allora parlamentare di Forza Italia, oggi arrestato dal successore di de Magistris a Catanzaro Nicola Gratteri – accusato di concorso esterno mafioso per aver fatto da tramite tra magistrati deviati e mafiosi ortodossi in una consorteria massonica: il Deep State all’italiana.

Era più o meno la stessa ipotesi cullata da de Magistris che, indagando su un imprenditore calabrese vicino alla Compagnia delle Opere, Antonio Saladino, aveva a suo dire «illuminato» un’inconfessabile rete di rapporti e complicità che abbracciavano politica (senza distinzioni di schieramento) malaffare e pezzi dello Stato come i vertici della magistratura di Catanzaro dell’epoca.

Inoltre le dimissioni di de Magistris dalla magistratura gli hanno evitato le conseguenze di un procedimento disciplinare che lo avrebbe colpito sulla base delle conclusioni della sentenza della Corte Suprema.

Con la seconda e più recente sentenza la  Cassazione, nel 2019, si e’invece occupata di una denuncia di De Magistris contro i vertici della procura di Catanzaro dell’epoca in cui assumeva di  essere stato dolosamente privato della titolarità delle indagini che lui svolgeva, sulla base di pretestuosi ed illegittimi atti di avocazione assunti dai vertici della procura calabrese, imputati per questo di corruzione.

Dopo una assoluzione in primo grado la Corte di appello di Salerno “sia pure ai soli effetti civili “aveva accolto l’impugnazione di De Magistris “con riferimento a due fattispecie di abuso di ufficio per le quali le carte del processo non erano idonee a comprovare con evidenza le ragioni per il proscioglimento nel merito degli imputati”.

La Corte di Cassazione con una sentenza di pochi mesi fa, su ricorso di questi ultimi ha annullato questa sentenza per violazione di legge perché gli imputati (tra cui alcuni magistrati della procura di Catanzaro) erano stati ritenuti responsabili di reati diversi (ancorché meno gravi) da quelli effettivamente contestati (abuso di ufficio invece di corruzione). 

Alcuni dei punti oggetto delle due vicende sono oggi al centro dell’indagine “Rinascita-Scott” dell’attuale procuratore del capoluogo calabrese Nicola Gratteri che minaccia di terremotare l’ambiente politico e giudiziario della Calabria e non solo.

Se è vero che c’è del marcio nel paese, è altrettanto vero che uno Stato di diritto non può accettare metodi illegittimi per contrastarlo, la storia dell’archivio di Genchi ricorda molto da vicino lo scontro sulle intercettazioni del Quirinale nell’indagine sulla trattativa “Stato-Mafia”.

Più volte la magistratura si è scontrata con lo Stato, è un dato di fatto. E se il controllo di legalità è uno dei presupposti della democrazia, il rischio di avventurismi politici e di protagonismi con finalità politiche è altrettanto alto. L’esempio di Sergio Moro, il magistrato brasiliano che Bolsonaro credeva di utilizzare per la sua scalata politica e oggi messosi in proprio contro il mentore politico, può riproporsi da noi.

Per di più oggi la magistratura versa in un grave stato confusionale, come provato dalla dolente intervista di Giuseppe Cascini, membro del Csm, concessa a Lucia Annunziata. Durante l’intervista, forse involontariamente, Cascini ha addirittura suggerito l’immagine di un sistema in cui l’omertà è diffusa se non la regola quando gli è stato contestato il diffuso silenzio mantenuto dalla corporazione sulle devianze interne prima dello scandalo Palamara. Uno scenario che abitualmente da Pm bollava come illecito e di più.

In tale clima forse rispolverare l’idea di “staccare” le Procure dai Tribunali può essere una soluzione nell’interesse reciproco dei due rami della magistratura, a patto che la si adotti con le dovute cautele e in modo trasparente. La discussione a fine giugno della proposta di iniziativa popolare sulla separazione delle carriere promossa dall’unione delle Camere Penali, l’associazione dei penalisti, può essere un utile punto di partenza senza quei pregiudizi che ormai nessuno può concedersi.

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