La partita del secoloCosa ha voluto dire Italia-Germania 4 a 3 per il calcio e per il Paese

Centoventi minuti leggendari ai Mondiali messicani, uno spartiacque per la storia del pallone, per gli Azzurri e non solo. Il match è un evento iconico di un anno che per il nostro paese sarà una stagione di cambiamento, la fine di un’epoca e la speranza giovanile per un futuro diverso

Di partite di calcio ce ne sono tantissime, se ne giocano fino a riempire ogni data in calendario, ma poche hanno la forza di rimanere impresse nella memoria collettiva come la semifinale dei Mondiali messicani del 17 giugno 1970: Italia-Germania 4 a 3 ha avuto l’onore di essere ribattezzata la migliore del Novecento. Lo ricorda una targa affissa nello stadio Azteca di Città del Messico in cui si giocò quella partita.

«La storia del calcio – dice a Linkiesta Maurizio Crosetti, giornalista e autore del libro “4 a 3. Italia-Germania 1970, la partita del secolo” (HarperCollins) – è piena di sconfitte e vittorie impossibili. Questa è la più impossibile di tutte, una che si può spiegare solo con i termini dell’eccezionalità. E per noi che l’abbiamo vinta è diventata un momento fondativo della memoria della nostra Nazionale».

Quell’anno l’Italia attraversava una stagione di cambiamento, come in buona parte del mondo Occidentale del resto. Stava venendo fuori la generazione cresciuta nel boom economico. Quella che non aveva conosciuto la guerra, e che non aveva vissuto le difficoltà dell’immediato Dopoguerra.

«Erano anni di transizione – ricorda Riccardo Cucchi, ex radiocronista della Rai e autore del libro “La partita del secolo. Storia, mito e protagonisti di Italia-Germania 4-3” (Piemme) – pieni di speranza. La mia generazione, quella che nel 1970 era adolescente o appena maggiorenne cercava spazio, visibilità, un futuro diverso, più egualitario, forse anche con un po’ di ingenuità».

La politica italiana era segnata dalla successione in serie di “governi lampo” che già nei primi mesi di quel 1970 avevano visto cadere un esecutivo e riformarsi dalle sue stesse ceneri, con Mariano Rumor (Democrazia cristiana) che era succeduto a se stesso a marzo. Una politica che avrebbe fatto i conti con gli anni di piombo, iniziati formalmente con la stage di piazza Fontana del dicembre precedente.

La stagione di cambiamenti era anche una stagione di esaltazione e di movimenti giovanili. «Era un contesto molto ricco anche dal punto di vista culturale, sono anni di grandi concerti, grandi appuntamenti planetari, gruppi sconosciuti si affacciavano alla scena musicale per rimanere nella storia», spiega Riccardo Cucchi. Mentre la musica italiana faceva di testa sua e premiava Adriano Celentano e Claudia Mori al Festival di Sanremo per “Chi non lavora non fa l’amore”, e Gianni Morandi vinceva Canzonissima con “Ma chi se ne importa”.

Intanto nella moda e nel design iniziava a imporsi, a livello internazionale, la forza del Made in Italy: il boom economico aveva creato una categoria di nuovi consumatori, quella middle class che era diventata la fascia di clienti più larga che mai avuta a disposizione dai brand. Se nel fashion anche l’abbigliamento formale iniziava a perdere parte delle sue regole e della monotonia che lo aveva caratterizzato fin dal Dopoguerra, i grandi marchi del design italiano prendevano le distanze dai due decenni precedenti dando vita a produzioni – anche industriali, grazie allo sviluppo delle ultime tecnologie – che sarebbero diventate icone senza tempo dello stile italiano.

In questo contesto si inserisce un Mondiale che a sua volta sarà uno spartiacque nel mondo del calcio. Intanto perché è l’alba dello sport in televisione: Messico ‘70 è stato il primo mondiale interamente trasmesso nelle case degli italiani, in diretta o in differita, cosa che non era successa per il Mondiale inglese del 1966. Un calcio che iniziava ad avere i tratti di oggi dal punto di vista mediatico.

«Italia-Germania è la partita simbolo di questo Mondiale – spiega Cucchi – quindi di un’epoca romantica che stava per finire e una che arrivava. I volti dei calciatori, che erano della generazione nata durante la guerra o subito dopo, sono volti semplici, uomini e ragazzi cresciuti nelle difficoltà. Ma è anche l’alba di un’epoca di grande movimento, e di un interesse enorme per lo sport grazie alla televisione. Si può dire che questa partita rappresenti il passaggio di consegne tra un calcio romantico e un calcio moderno».

L’Italia era una Nazionale forte, fiduciosa, espressione di un campionato che aveva già portato alla ribalta internazionale le due squadre milanesi, e aveva trovato in casa un Cagliari inedito e vincente che appena due mesi prima della spedizione messicana si era aggiudicato il suo primo scudetto.

«Gli ultimi Mondiali – ricorda Maurizio Crosetti – erano stati quelli terribili del 1966, con la delusione dell’eliminazione per mano della Corea: forse il punto più basso della nostra Nazionale dal Dopoguerra. Però da quelle ceneri nacque un nuovo ciclo fatto di grandi giocatori, con il ct Ferruccio Valcareggi che era stato vice di Edmondo Fabbri nel ‘66, e aveva guidato gli Azzurri alla vittoria degli Europei nel 1968».

I Mondiali messicani l’Italia li avrebbe vissuti con la convinzione di poter arrivare fino in fondo e con un solo grande interrogativo: c’era un solo posto disponibile per Sandro Mazzola e Gianni Rivera, due giocatori eccellenti che si pensava non potessero coesistere, «mentre il resto del mondo ci contestava l’incapacità di mettere in campo i nostri due migliori giocatori», chiarisce Cucchi.

Valcareggi aveva risolto il rebus con un turnover – all’epoca poco utilizzato – che si era già rivelato vincente due anni prima nella doppia finale europa contro la Jugoslavia, grazie all’inserimento nell’undici titolare della gara di ritorno di giocatori come De Sisti, Riva, Mazzola.

Il 17 giugno di cinquant’anni fa lo stadio di Città del Messico contava un numero di spettatori superiore ai 100mila, nel caldo pomeriggio azteco (mentre in Italia la partita iniziava a mezzanotte).

Quella sfida epica è stata vista, rivista e rivissuta da diverse generazioni di italiani. Da qualche parte deve esserci qualcuno in grado di recitarla a memoria, ripetendo le parole di Nando Martellini – telecronista Rai – o del radiocronista Enrico Ameri. Ma i novanta minuti non sono nemmeno granché.

C’è un gol di Boninsegna, che in Messico nemmeno doveva andarci, all’ottavo del primo tempo, e il pari del difensore tedesco Schnellinger (giocatore del Milan), due minuti oltre il novantesimo, che aveva mandato la sfida ai supplementari dopo una partita non esaltante.

«Una giostra di errori tecnici e di disattenzioni – la definisce Crosetti – poi una partita matta, da infarto nella mezzora aggiuntiva».

Prima il gol del vantaggio tedesco di Müller al sesto minuto, poi il nuovo pari firmato da Burgnich, difensore italiano di origini austriache, su assist di Rivera, che quel giorno era partito in panchina e aveva preso il posto Mazzola all’intervallo. Sul finire del primo tempo supplementare il nuovo vantaggio italiano con Gigi Riva e a dieci minuti dal triplice fischio l’ennesimo pari, firmato ancora Müller, che di testa aveva trovato uno spiraglio tra il palo e le gambe di Rivera.

La redenzione del giocatore del Milan si sarebbe fatta attendere appena sessanta secondi: il tempo di undici passaggi, di una discesa sulla sinistra di Boninsegna e la definizione di piatto destro di Rivera per il gol decisivo.

Italia-Germania 4-3, un risultato scolpito nella storia.

Quella partita però non avrà il finale, anzi la finale, che l’Italia avrebbe voluto. «Contro il Brasile non avremmo mai vinto, erano praticamente imbattibili. Una squadra formidabile che molti ritenevano la più forte mai vista», dice Riccardo Cucchi.

Quella finale impossibile l’Italia la perderà nel secondo tempo: qualcuno dirà, e dice ancora oggi, che ha influito la stanchezza della semifinale, il peso dei supplementari e della gioia per un successo storico e inimitabile. A cinquant’anni di distanza ci piace pensare ancora che sia davvero così.

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