Il più grande spettacolo dopo il Big bang sarà il big bang del Movimento 5 Stelle, quando il ciclone Di Battista innescherà la conflagrazione di un partito che ormai da tempo è un bricolage di schegge fuori controllo, l’una cozzando con le altre come le palline nei bussolotti delle estrazioni del lotto.
Ed è proprio la previsione di questo showdown che spinge gli strateghi del Partito democratico a riconsiderare tutto il rapporto con i Cinquestelle senza ideologismi, ma molto pragmaticamente. In questo senso va letto quanto ha detto Andrea Orlando al Foglio: «Non so se alla fine di questa esperienza il Movimento 5 stelle sarà esattamente ciò che è stato fino ad oggi».
Per questo il vicesegretario non parla, come fa Dario Franceschini, di un’alleanza strategica o permanente, «io non l’ho mai detto». La differenza è che il ministro della Cultura va schierando le ipotetiche truppe per la grande battaglia del Quirinale mentre il numero due dei dem pensa al governo di domani.
Orlando intanto mette agli atti che il partito di Di Maio «non è più euroscettico» – anche perché se lo fosse cadrebbe il governo – ma probabilmente questo non è abbastanza per parlare, come pure fa il numero due del Nazareno, di «un’evoluzione» tale da far ipotizzare un accordo politico di non breve durata, anche se non permanente, con i grillini.
Perché è anche vero che una seria riconversione democratica il Movimento non l’ha mai fatta. Manca tuttora – se il paragone non fosse troppo enfatico e solenne – una Bad Godesberg grillina, ove mai fosse autorizzata l’ipotesi di un congresso democratico di idee per un gruppo verticistico, opaco e ideologicamente grossolano come il Movimento 5 stelle.
Ma poi soprattutto bisognerà anche vedere come reggerà alla prova delle Regionali di settembre, un tipo di elezioni da cui Di Maio esce ogni volta malconcio: l’ennesimo flop sarebbe (sarà) una grande freccia all’arco di Alessandro Di Battista o Paola Taverna, tanto per stringere ancora di più il cappio attorno al collo dei “governisti”, tra l’altro ormai senza truppe sul territorio e pure divisi fra loro.
È dunque un quadro in cui non può dirsi affatto compiuta, o anche solo avanzata, l’evoluzione dei grillini, a meno che non si consideri un fattore di crescita la loro famelica attitudine alla ricerca di posti di sottogoverno, si guardi alle nomine negli enti pubblici o alla lottizzazione in Rai.
Semmai, da questo punto di vista, diremmo che il Movimento si è involuto lungo un percorso di potere, per quanto breve, non esitando, pur di mantenerlo, di passare da Salvini a Zingaretti, in una versione cinica dell’uno vale uno da declinarsi con un più veritiero “uno vale l’altro”: altro che evoluzione.
Certo, quello che al Partito democratico farebbe molto comodo sarebbe una spaccatura del Movimento da cui sortissero da una parte un partito ancorato al centrosinistra e ad una chiara propensione di governo, un partito alla Patuanelli per intenderci, e dall’altra un movimento dibattistian-taverniano, striato di pappalardesco arancione (nel senso delle follie antimoderne e antiscientifiche), populista, terzomondista, estremista e intimamente antiparlamentare.
Una frattura fra “buoni” e “cattivi” rientrerebbe perfettamente nello schema classico della sinistra, con un significativo “partito dei contadini” (come quello che in Polonia supportava il partito comunista senza tante discussioni) a fianco del Partito democratico a compensare quello che pare ormai un suo strutturale deficit di voti.
Senza uno straccio di alleati infatti il Partito democratico non va da nessuna parte, avendo ormai disperso la mitica attitudine alla “vocazione maggioritaria”. Andrea Orlando lo sa bene e azzarda una nuova definizione: «Convergenza con quel pezzo di populismo ascrivibile all’europeismo».
Qualunque cosa voglia dire, anche disprezzando la logica politica e filosofica che nega in radice la compresenza di populismo e europeismo, la confusione regna fino a nuovo ordine.