Non c’è modo di capire l’ultima settimana di storia americana senza vedere cosa succede dall’altro capo dell’arresto e della morte di George Floyd a Minneapolis. Da un lato della vicenda quattro poliziotti arrestano e ammanettano un cittadino sulla parola dei commessi di un negozio, che lo accusano di aver pagato le sigarette con venti dollari contraffatti.
Dall’altro c’è il sistema di incarcerazione di massa, nel quale si può entrare anche per colpe anche più lievi di una (presunta) banconota falsa e che fa degli Stati Uniti la nazione con più detenuti al mondo.
Sono 2,3 milioni le persone attualmente dietro le sbarre, sparsi tra oltre 7mila carceri statali, federali e locali: un tasso di 698 detenuti su 100mila abitanti. Secondo i dati di Prison Policy, uno dei tanti progetti di riforma del sistema carcerario, mezzo milione sono in attesa di giudizio.
Spesso non hanno i soldi per aspettare la sentenza da persone libere, perché la cauzione costa in media 10mila dollari, o otto mesi di stipendio. I numeri del problema diventano ancora più imponenti se guardiamo quanti cittadini ogni anno vengono arrestati dalla polizia: secondo gli ultimi dati aggregati dall’FBI sono 10,3 milioni, un tasso di 3,152.6 per 100,000 abitanti.
Parliamo di un ingresso nel sistema penale ogni tre secondi, la maggior parte dei quali non porterà a nessuna incriminazione e nessun processo. I numeri hanno una scala da pandemia: quasi 5 milioni di americani sono stati in prigione, 77 milioni hanno un «criminal record». Poco meno di uno su due (113 milioni) ha un parente diretto che è stato in carcere a un certo punto della sua vita.
È come se ormai essere arrestati facesse parte dell’esperienza americana, soprattutto per minoranze e poveri. Non è sempre stato così: dalla fine della Guerra civile nel 1865 alla war on crime di Lyndon B. Johnson 184mila persone erano state in prigione.
Da lì alla guerra alla droga di Reagan sono raddoppiati e la corsa non si è più fermata. Il dato attuale vuol dire un aumento del 943% in mezzo secolo. Come è successo, visto che i crimini violenti sono calati del 51% dagli anni ’90 a oggi?
È quello che Alexandra Natapoff nel suo libro Punishment Without Crime (Castigo senza delitto) ha definito «massive misdemeanor system», l’impostazione punitiva che da anni nutre l’apparato penale.
Quella dei misdemeanor è la vasta categoria delle infrazioni lievi per le quali un poliziotto può ammanettarti in America: attraversare fuori dalle strisce, stare seduto sul marciapiede, guidare senza cintura di sicurezza o con uno stop rotto, bere quando non hai l’età legale per farlo.
Lo spettro di quello che è considerato punibile negli Stati Uniti è una rete da pesca a strascico lanciata ogni giorno sulle città. Nel suo libro, Natapoff calcola che l’80% degli arresti a livello nazionale è per un’infrazione di questo livello, un’aneddotica di cui la stampa locale è piena: bambini arrestati a scuola perché iperattivi, sceriffi che organizzano retate di adolescenti accusati di avere una birra.
Questa impostazione porta devastazione nella vita delle persone, può far perdere il lavoro, la casa, le borse di studio, l’affidamento dei figli, minare la salute fisica e mentale, e soprattutto crea un numero spropositato di interazioni pericolose e non necessarie tra le forze dell’ordine e i cittadini.
Questo sistema si intreccia con la discriminazione razziale, ed è qui che il mix sociale diventa esplosivo. È una chiave di lettura importante per capire la rabbia dopo i fatti di Minneapolis.
Gli omicidi della polizia sono la miccia che fa detonare un disagio più ampio, perché per un afroamericano la questione con la polizia e con la giustizia è un sempre fatto personale. Gli afroamericani sono il 13% della popolazione ma rappresentano circa il 40% dei detenuti.
Secondo i dati del Sentencing Project, i neri in America sono incarcerati a un tasso cinque volte superiore a quello dei bianchi, in cinque stati (e tra questi c’è il Minnesota di George Floyd) a un tasso dieci volte superiore.
Ci sono dodici stati in cui la metà della popolazione carceraria è composta da neri, ce ne sono undici in cui un maschio adulto afroamericano su venti è attualmente in cella (in Oklahoma uno su quindici).
Tra i ragazzi della classe 2001 uno su tre finirà in manette a un certo punto della sua vita. Statisticamente, per un afroamericano nato dopo il 1965 senza un diploma superiore è più probabile finire in carcere che non finirci.
La California e il Michigan spendono più soldi per tenere in prigione i giovani che per istruirli. È provato che le politiche scolastiche e le carceri sono collegate da una specie di tunnel sociale: la school-to-prison pipeline.
C’è una correlazione con le sospensioni ed espulsioni, le politiche scolastiche di tolleranza zero fanno uscire adolescenti neri e ispanici dal sistema dell’istruzione e li fanno entrare negli anni successivi in quello penale.
Nessuno può discutere sul fatto che ci sia disparità nel trattamento, sui motivi invece si dibatte da decenni: istruzione, disoccupazione, povertà, l’eredità della segregazione urbana finiscono in un calderone che non ha prodotto risposte univoche.
A ogni scala lo si guardi, il sistema ha un suo guasto specifico da riparare, ma in questi giorni è delle forze dell’ordine che si parla di più. The Atlantic addirittura si chiede: sono diventate un esercito?
Uno dei testi per capire l’attività dei poliziotti americani è The End of Policing di Alex S Vitale, sociologo e coordinatore del Policing and Social Justice Project del Brooklyn College. Vitale racconta come la vita di un membro delle forze dell’ordine sia «99% noia e 1% puro terrore».
Arrestare un vero criminale (per un «felony»), è un evento raro, passano anni senza che accada, è un picco di carriera, la storia da raccontare ai nipoti. Nella vita quotidiana quello che fanno è raccogliere denunce, compilare rapporti e pattugliare le strade alla ricerca di violazioni e infrazioni da perseguire.
Sono armati come soldati al fronte (per una legge del 1997 le forniture militari in eccesso vengono passate alle forze di polizia) e con poco da fare. Spesso hanno delle quote di arresti da rispettare o degli incentivi alla «produttività».
Vitale racconta che in alcuni distretti sono tenuti a seguire il booking process fino alla fine e che un arresto a fine turno è un modo per accumulare paga e straordinari. Più si abbassa la gravità del reato e più aumenta la discrezionalità. In un caso di omicidio, non importa che tu sia bianco, nero, ispanico.
È nel perseguire i reati più lievi che le pattuglie hanno libertà di scegliere a cosa dedicarsi ed è qui che l’incarcerazione di massa prende i contorni di una persecuzione. Nel 2018 Johnnie Rush stava tornando a casa in North Carolina dopo un turno da 13 ore come lavapiatti, è stato fermato da due poliziotti che gli hanno contestato di non aver attraversato sulle strisce, anche se era notte e non c’erano macchine.
Lo hanno ammanettato, hanno usato il taser, lo stavano soffocando, anche lui ha detto: «I can’t breathe». L’America è piena di storie così: quello che colpisce, prima ancora della violenza ingiustificata contro un cittadino disarmato, è l’evitabilità della situazione.
Un attimo prima, c’è una persona non pericolosa che sta tornando a casa pensando ai fatti suoi. Un attimo dopo c’è una colluttazione arbitraria, violenta e pericolosa, tutto per qualcosa per cui un europeo non accetterebbe nemmeno una multa.
Rush si è salvato, quando un video è stato diffuso è stato anche scagionato da ogni accusa, mentre il poliziotto ha perso il lavoro ed è stato incriminato. A George Floyd non è andata bene, purtroppo.
Si discute di riformare la polizia, migliorarne la preparazione, aumentare le bodycam, incoraggiare il dialogo con comunità, essere più efficaci con i violenti, sicuramente Derek Chauvin avrà una lunga pena. Ma probabilmente niente cambierà finché l’America resterà il paese che arresta un cittadino ogni tre secondi.