Nazione di nazioniPuò esistere davvero il patriottismo europeo?

Per quanto ancora da sviluppare e da consolidare, l’Europa comunitaria è fatta e dovrebbe aver raggiunto una concretezza tale da non poter esser più, per convinzione comune, messa in discussione da nessun genere di crisi. Però è necessario ormai “fare gli europei”

Si può avvertire quasi come una provocazione l’associare l’idea di una “patria da amare” all’Europa (sia per le culture nettamente di destra e di sinistra, sia per quelle centriste e liberaldemocratiche). Amare l’Unione Europea come la propria patria? Chiamare l’Europa “patria”? Proporre un patriottismo europeo?

Sono domande alle quali alcuni rispondono con un sì e altri con un no secchi, senza possibilità di discussione. Altri danno risposte negative o positive, ma più mediate e misurate. Dal pensiero ultranazionale dei militanti dei partiti antieuropei, populisti e sovranisti, solo risposte negative: guai a chiamare “patria” un’Europa negatrice, a loro avviso, delle identità e degli interessi nazionali (o micronazionali).

Viceversa, i federalisti europei enfatizzano le ragioni del sì: il «patriottismo europeo» si coniuga, nella loro opinione, con la militanza a favore della costruzione dello Stato federale europeo, ossia del traguardo necessario di un percorso progettuale più lungo che porterà allo Stato federale mondiale, per assicurare la pace e il progresso civile e sociale in Europa e nel mondo.

Anche non identificandosi con le ali estreme, che talvolta peccano di chiusura, di eccessivo egoismo o di ideologismo, le posizioni più riflessive variano tra i sì e i no. C’è chi nega recisamente che possa esistere un «patriottismo europeo» democratico, come nel caso di de Gaulle.

Gli eurofederalisti, sentenzia il generale, sono apatrides. Tra quanti, invece, ne ammettono l’esistenza, differiscono gli argomenti a favore, ma si sostiene che, comunque, si tratti di una realtà in progress, di un sentimento da costruire, di cui già sono visibili concreti fondamenti identitari materiali e morali operanti in tal senso.

(…) il patriottismo europeo dev’essere blutlos, estraneo ai legami di sangue e territoriali; dev’essere un patriottismo fedele alla costituzione e alle leggi europee, come sostenuto da Habermas.

Insomma, il patriottismo europeo si pone come il coronamento di identità nazionali affrancate dallo spirito del nazionalismo e non dev’esser indifferente ai valori sociali, deve dimostrarsi capace di erigere l’unità europea sui pilastri della socialità, della solidarietà e della “buona globalizzazione”.

Da questo schematico panorama si evince che una forma polimorfa di «patriottismo europeo» viene per lo più ammessa da molte espressioni culturali e politiche che ne fanno una sorta di garante della stessa vita democratica nazionale. Per le forze che nel Parlamento europeo si collocano in uno spazio di centro-sinistra esso viene identificato sempre più come «patriottismo costituzionale» nel senso habermasiano.

(…) sembra impossibile negare oggi una qualche validità al concreto svolgersi ed estendersi di un sentimento di identificazione e di appartenenza europea.

Esso si nota sempre più, per esempio, nel mondo giovanile in cui è cresciuta e si sviluppa enormemente la spinta a studiare e a vivere negli altri Paesi europei grazie a Erasmus, sentendosi sempre più cittadini europei, sentimento che provoca appunto un attaccamento all’Europa comune e unita, in altre parole un certo «patriottismo europeo».

Lo si avverte non appena si esca dall’Europa per andare anche solo negli Stati Uniti, per molti versi culturalmente affini al vecchio continente, ma distantissimi per altri aspetti sociali e politici. Lo si può toccare con mano anche in casi in cui questo sentimento di identificazione e di appartenenza, per flebile che si possa supporre, si sente minacciato da iniziative che tendono a mettere l’Unione europea in sottordine o a rischio, come per esempio le “guerre commerciali” o le pretese di global governance delle crisi, concepite sulla base prevalente di opzioni militari da parte della superpotenza americana nella fase aperta col secolo XXI.

Tuttavia, si può dare qualche elemento in più su cosa sia, o possa diventare, oggi e domani, il patriottismo europeo, specie in relazione al patriottismo nazionale che dal primo non può esser emarginato o sostituito, ma anzi va salvaguardato nelle forme corrette. Ci si può domandare se e come l’Europa unita possa costituire un “luogo patrio” in senso più profondo, se lo si possa amare prima ancora che rispettare.

Perché è fuor di dubbio che il termine “patriottismo” è usato nell’epoca moderna e contemporanea sempre più come sentimento di amore e di attaccamento alla patria-nazione, e tale, plausibilmente, sarà ancora per molto tempo. Per questo viene spesso associato con il “nazionalismo”, che di per sé però vuol dire un’altra cosa. Si crea sempre confusione quando si usano termini sensibili come questo in riferimento a soggetti e a oggetti diversi da quelli originari.

Occorre perciò chiedersi che cosa possa significare “patriottismo europeo”, per evitare di cadere nell’errore di ricalcarlo meccanicamente sul patriottismo nazionale e sul nazionalismo, perché è evidente che non possono avere significati coincidenti. In genere, si tende a conferire un carattere “sostantivo” (nel senso habermasiano) al patriottismo nazionale, in quanto cioè lo si ritiene espressione diretta di caratteri fondativi dell’appartenenza fisica e spirituale a una nazione, alla terra dello Stato nazionale. Sull’esaltazione di questa circostanza si basano le ideologie nazionaliste e le forme di patriottismo nazionale.

Se si prende invece, per esempio, l’intuizione di Rosselli sul necessario avvento di forme di «nazionalismo democratico» e di «patriottismo» europei, si capisce che egli pensa alla costruzione di una identità unitaria europea in un senso assai più profondo idealmente di quello degli altri europeisti.

Il termine “patriottismo” applicato all’Europa implica per lui l’idea di una comune patria europea, gli Stati Uniti d’Europa, un’idea-forza che serve a creare appunto una prospettiva storica dinamica ed evolutiva, che non assume come immutabile dato naturale la nazione nella forma creatasi tra XVII e XIX secolo.

Rosselli vuole affermare la possibilità e la progettualità di una forma superiore di unità nazionale, nel senso quasi montesquieviano di una “nazione composta di nazioni”, culturale, economica, ma con l’aggiunta di una componente politica, capace di integrare in essa tutti gli europei, andando oltre la storia passata che ha condotto, degenerandosi nazionalisticamente, nell’assetto interno ai vari paesi e nelle relazioni reciproche, alla tragica china della “guerra che torna”.

Anche in Hallstein non mancano riferimenti all’instaurazione di un sentimento patriottico rispetto all’Europa. Tale sentimento è consustanziale alla sua visione “costituente” dei medesimi trattati che danno vita all’integrazione economica europea negli anni Cinquanta. Nel discorso di insediamento alla presidenza del Movimento europeo nel gennaio 1968 rende trasparente l’esigenza da lui sentita della creazione della «coscienza della nazione europea».

La parola “nazione”, usata in questa accezione, rimanda a “popolo” europeo, termine collettivo generalmente evitato dai più che usano il plurale “popoli”. Hallstein vuole in realtà alludere alla circostanza che lo scopo ultimo del processo di integrazione sia un’unione politica talmente intima da giungere alla creazione di un soggetto collettivo culturale e politico unitario (Hallstein, 1969).

Questa discussione fa intuire quanto la questione delle forme e del ruolo di un “popolo europeo” – definibile come popolo di cittadini a un tempo federali e repubblicani – sia tra quelle capaci di far andare al cuore delle cause della crisi europea attuale.

Il problema del popolo europeo può aiutarci a comprendere l’attualità della contraddizione fondamentale della stessa crisi mondiale, che si riassume nel rifiuto dei principali Stati sovrani di attenersi all’iniziativa dell’organizzazione internazionale creata per la risoluzione pacifica dei conflitti, per dar invece libero corso a una politica di potenza sotto varie forme.

Infatti, nella sua essenza la questione della plausibilità di un “popolo europeo” – ovvero l’individuazione di un soggetto costituente che autorizzi la compresenza di forme di governo democratico, legittimo e condiviso, ai livelli nazionali e sovranazionale europeo – esige a sua volta, come ulteriore sviluppo, la creazione di organizzazioni sovranazionali a carattere statuale cosmopolitico che hanno come premessa il superamento definitivo e generalizzato della forma di Stato moderno dotato di sovranità piena ed esclusiva.

Una forma di Stato che inopinatamente, dopo il 1989 e nella crisi apertasi nel primo decennio di questo secolo, sperimenta una reviviscenza “sovranista”, e cerca di far fronte alle sfide nuove poste dalla globalizzazione e dai contrasti tra le civiltà coi mezzi tradizionali (benché tecnologicamente avanzatissimi) in suo possesso con lo scopo, in primo luogo, della riaffermazione e della salvaguardia dell’integrità della propria sovranità nazionale (mezzi che vanno dalla diplomazia di potenza agli strumenti di deterrenza, compreso quello della guerra).

Insomma, di fronte alle esigenze urgenti di ridefinizione dei rapporti e degli assetti istituzionali internazionali, sovranazionali e transnazionali, le élites al potere nei maggiori Stati democratici risentono del riflesso di autoconservazione della sovranità dello Stato moderno e tendono a ritornare all’antico (e la stesso vale evidentemente per gli Stati più arretrati, non democratici o parzialmente democratici)

È per questo che è necessario ribadire che sotto il manto di categorie nuove e pseudo-nuove del cosiddetto pensiero realista antieuropeo si agitano vecchi fantasmi, e in particolare quello che sta ancor una volta sotto l’iniziativa bellica nel mondo attuale: l’affermazione della sovranità assoluta ed esclusiva degli Stati nazionali macroregionali e del superstato-potenza per antonomasia nella situazione odierna in cui lo scopo – legittimato da sacrosanti appelli alla lotta una volta contro il terrorismo mondiale, un’altra contro l’invadenza commerciale e così via – sembra sempre più quello di ridisegnare un potere totale nell’area strategica del mercato mondiale delle risorse energetiche.

Quanto è distante allora la logica sostanziale delle guerre attuali (al di là dei pretesti e delle contingenze) da quella che ha ispirato i conflitti planetari del Novecento?

Pur in un quadro così fosco, le ragioni di fondo, oggettive, del processo unitario europeo che stanno alla base della sua identità – ragioni di pace, di sviluppo economico e sociale integrato del continente, che ormai ricomprende anche la parte orientale, di gestione efficace ed efficiente della moneta unica, di unione per la difesa e la sicurezza reciproca e per la salvaguardia della pace nel mondo, di legittimazione del potere pubblico che esso ha costruito e che si trova ad annaspare oggi in una situazione di difficile deficit di democrazia – esistono ancora al momento del tutto intatte.

Quello che sembra venir meno è la volontà politica dei governi, delle forze politiche ancora una volta succubi della Realpolitik, dell’attrazione fatale del più forte, della brama del ritorno alle piccole diplomazie dei concerti e dei direttori. «Fatta l’Italia, bisogna fare gli italiani», sentenziò un grande protagonista del Risorgimento, intendendo dire che alla fondazione dello Stato unitario doveva seguire l’unificazione della società, il nation building.

Per analogia, ma con movimento eurocentripeto, si può affermare: fatta l’Europa comunitaria – che, per quanto ancora da sviluppare e consolidare, dovrebbe aver raggiunto una concretezza tale da non poter esser più, per convinzione comune, messa in discussione da nessun genere di crisi – è necessario ormai “fare gli europei”

Se pensiamo all’Europa nelle immortali parole di Montesquieu, come a una «nazione composta di nazioni», potrebbe e dovrebbe valere anche per essa uno stesso tipo di adesione volontaristica, di appartenenza basata in pari misura sulla consapevolezza di una comune identità morale, culturale, economica, e sul consenso per il progetto unitario, politico e costituzionale.

Tratto da “L’idea di Europa. Storie e prospettive” (Carocci editore), di Corrado Malandrino e Stefano Quirico, 284 pagine, 23,75 euro

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