Il ministro dello Sviluppo economico Stefano Patuanelli accusa ArcelorMittal di avere un «atteggiamento remissivo» sull’ex Ilva di Taranto. ArcelorMittal risponde chiedendo la cassa integrazione per altre 13 settimane per oltre 8mila lavoratori.
La riconversione del polo siderurgico pugliese nel Piano nazionale di riforma (Pnr) del governo viene indicata come «uno dei progetti chiave», identificata come asset strategico ed escludendo ogni ridimensionamento della capacità produttiva. Ma le trattative in corso per far rimanere i Mittal al timone dell’acciaieria più grande d’Europa, per ora, non decollano.
Il governo avrebbe chiesto alla multinazionale investimenti per almeno un altro miliardo in attuazione del piano del 4 marzo, sia pure temperato per la crisi Covid-19, ma solo per il 2020. Ma il discorso al momento pare essere tutto concentrato sulla compagine societaria e poco sul piano industriale del sito. Molto ruota attorno all’ingresso di Invitalia nel capitale – se in maggioranza o in minoranza è ancora tutto da valutare. Soluzione sponsorizzata anche da Bruxelles, che punta, attraverso le risorse del Just Transition Fund, alla riconversione degli stabilimenti industriali in impianti a idrogeno.
Un piano ventennale di transizione verde che oggi però, a guardarlo da Taranto, sembra molto molto lontano. Tra la produzione scesa ai minimi di 7.500 tonnellate di acciaio liquido al giorno e le polveri ferrose che si sono abbattute ancora sui quartieri vicini alla fabbrica, lo stabilimento è ormai in agonia. Gli altoforni accesi sono appena due su cinque, il minimo indispensabile per tenere in vita il sito produttivo, in attesa dell’arrivo di un accordo.
Lo stato degli impianti
«Lo stabilimento di Taranto è ai livelli minimi di funzionamento delle produzione», racconta Gianni Venturi, segretario nazionale della Fiom-Cgil e responsabile della siderurgia. «Andando avanti così, si rischia di arrivare a fine 2020 con una produzione tra i 3 e i 3,5 milioni di tonnellate». Che non solo è una quantità di molto inferiore rispetto alla capacità di oltre 10 milioni di tonnellate, ma soprattutto vuol dire un dimezzamento rispetto ai 6 milioni di tonnellate (il massimo previsto dalla legge per ragioni ambientali fino al 2023) che i Mittal si erano impegnati a garantire già nel 2018.
Il piano industriale presentato dall’ad Lucia Morselli l’8 giugno, quello dei quasi 5mila esuberi definito «inaccettabile» dal governo, prevede invece di raggiungere i 6 milioni di tonnellate solo nei prossimi tre anni.
E con una produzione così bassa, ogni momento rinvio del rilancio del polo siderurgico di Taranto significa terreno perso sui mercati che via via sarà sempre più difficile da recuperare. «Il quadro in cui versa l’apparato industriale è preoccupante», conferma Carlo Mapelli, professore di Materials Engineering & Environmental Impact al Politecnico di Milano. «Si stanno evidenziando cali produttivi così significativi che lasciano pensare che anche lo stato di usura degli impianti stia arrivando a un livello limite».
I buchi del piano Mittal
Carlo Mapelli è uno che conosce l’Ilva molto bene. Arrivato a collaborare con l’azienda all’epoca del commissariamento di Enrico Bondi, venne poi richiamato durante l’amministrazione straordinaria dei tre commissari Piero Gnudi, Corrado Carrubba ed Enrico Laghi, con l’incarico di valutare il piano di Mittal durante la procedura di gara.
E prima che Mittal mettesse le mani sull’acciaieria, avendo la meglio sulla cordata favorita di Cdp-Jindal, Mapelli aveva già messo in evidenza le falle del piano dei franco-indiani. Un progetto legato alla filiera del carbone, al contrario di quello di Jindal che prevedeva la sostituzione di una parte degli altoforni dell’Ilva con forni elettrici meno inquinanti. E che già tre anni fa destava non poche preoccupazioni.
Tra le criticità del piano che il professore aveva evidenziato, c’era il mancato rifacimento dell’altoforno 2 – quello su cui era arrivato l’ordine di spegnimento nel 2019 ribaltato poi dal Tribunale del Riesame di Taranto – che già dimostrava una vita residua molto breve. Con la conseguenza che, per allungare la durata della struttura, i tre altoforni in attività dovessero funzionare in modo alternato, riducendo così la capacità produttiva totale dell’impianto, spiegò Mapelli. Ed ecco che già nell’estate del 2018, Mittal annunciava che non avrebbe rispettato l’impegno di produrre 6 milioni di tonnellate d’acciaio, motivando il calo con la «crisi di mercato».
L’unica soluzione, con l’altoforno 2 a fine vita, sarebbe stata quella di riportare in attività il grande altoforno 5, che da solo può arrivare a un livello produttivo di 8 milioni di tonnellate l’anno, in modo da rafforzare la produzione. Cosa che Mittal in effetti si era impegnata a fare sul filo di lana per vincere la gara contro Jindal. E che invece non ha fatto, facendo slittare nuovamente in avanti l’impegno di rifacimento nell’ultimo piano presentato.
«Con l’arrivo di ArcelorMittal avevamo avuto una piccola speranza», racconta Valerio D’Alò, segretario nazionale della Fim-Cisl. «Ma oltre i buoni propositi, sugli investimenti non si è fatto nulla. Di fatto, siamo tornati indietro, senza manutenzione, senza investimenti, con le aziende dell’indotto che hanno continuato a ricevere i pagamenti a singhiozzo come nella vecchia amministrazione straordinaria». Prima che partisse «il teatrino politico sullo scudo penale sì o no, in realtà, Mittal aveva dato l’inizio alle opere ambientali. Poi si è bloccato tutto».
Una volta firmato l’accordo del 6 settembre 2018 con i sindacati, il 14 settembre già arrivò l’addendum di modifica del contratto. Il contratto era quello firmato quando a Palazzo Chigi c’era Paolo Gentiloni e al ministero dello Sviluppo economico Carlo Calenda. L’accordo di modifica arrivò invece con Giuseppe Conte al governo e Luigi Di Maio al Mise, dopo una campagna in cui si prometteva la chiusura dell’Ilva, aggiungendo al documento la clausola in cui si diceva che Mittal poteva recedere qualora fossero intervenuti cambiamenti alla normativa di riferimento. E la norma, con la cancellazione dello scudo penale, poi in effetti venne cambiata. Aprendo lo scontro con il gruppo franco-indiano, che continua ancora oggi. «Se l’obiettivo del Cinque Stelle era chiudere la fabbrica, sarebbe stato meglio chiarirlo risparmiando l’agonia alla fabbrica e ai lavoratori», dice D’alò.
Quando i Mittal arrivarono a Taranto, tra le restrizioni giudiziarie sull’area a caldo, la produzione a era già scesa a 4,5 milioni di tonnellate. Con la crisi dell’acciaio si è abbassata ancora a 4 milioni. Poi la pandemia non ha fatto altro che aggravare la situazione, portando lo stabilimento al limite della sopravvivenza. Una produzione così bassa che non riesce a compensare gli enormi costi fissi di cui necessita l’impianto. L’azienda, secondo le stime, perderebbe 3 milioni di euro al giorno.
La crisi Covid
«Se non ripartono gli utilizzatori finali dell’acciaio, non riparte Taranto», dice Venturi. Tra il lockdown e la crisi profonda del settore automobilistico a causa del Covid, le commesse sono calate a picco. Nel secondo trimestre la produzione di acciaio in Europa è sprofondata del 40%, e i nuovi ordinativi dei tagliati si sono ridotti del 70-75%.
Secondo il professor Mapelli, però, nella crisi Ilva c’è dell’altro. «Da una parte la situazione di mercato non aiuta», dice. «Ma sicuramente il gestore in questo momento ha voluto privilegiare altri suoi impianti, perché Ilva necessiterebbe di investimenti molto superiori per riuscire a offrire la quantità e la qualità degli acciai richiesti. Davanti alla necessità di far calare la produzione in funzione delle basse richieste di mercato, Mittal in pratica è andato a toccare uno dei punti deboli e meno profittevoli degli impianti che gestisce».
Se il crollo economico per l’Italia è atteso dopo l’estate, per la siderurgia il temuto autunno nero è già cominciato. Fatta eccezione per gli stabilimenti del Nord Italia che, nonostante la crisi e i debiti, hanno la solidità per poter resistere allo tsunami coronavirus, anche le altre grandi acciaierie sono in agonia. ThyssenKrupp ha già annunciato di volersi disfare dell’Ast di Terni. Il gruppo Jindal a Piombino ha chiesto garanzie finanziarie al governo, che sta ipotizzando un ingresso di Cdp.
Patuanelli ha promesso un «piano per la siderurgia certo per il Paese». Ma bisogna fare in fretta. «Ogni giorno che passa senza che ci sia un punto fermo sulla strategia nazionale è un giorno nel quale perdiamo autonomia industriale e strategica in Europa e nel mondo», dice Venturi. «Se si vuole risolvere anche la crisi Mittal, c’è bisogno di darsi una strategia che non si fermi a a banali discussioni».
Da decimo produttore di acciaio, l’Italia è già scalata al 14esimo posto nel mondo. E il rischio è che, senza acciaio, anche la più volte discussa posizione di «seconda manifattura d’Europa» scivoli via.
Effetto domino
Ma con il cervellone di Taranto in affanno, l’effetto è già quello di un effetto domino tutta l’economia italiana. Non solo per le 350 aziende dell’indotto che si occupano della manutenzione dell’impianto e per le piccole imprese del subindotto che circondano il sito produttivo. Ma per l’intera catena dell’acciaio. Se soffre Taranto, soffrono gli altri stabilimenti Mittal, a partire da Genova e Novi Ligure, dove le bramme pugliesi vengono lavorate. E soffre tutto il comparto della logistica tarantina, porto incluso, che ruota attorno agli altoforni.
E poi dall’Ilva la reazione a catena si ripercuote sugli utilizzatori finali dell’acciaio di Taranto, dall’industria degli elettrodomestici all’edilizia fino alle infrastrutture. Con la conseguenza che ora, ma soprattutto in futuro, i clienti diretti potrebbero non trovare più sul mercato nazionale quell’acciaio a buon prezzo com’è accaduto in passato. «Ilva è strategica nel momento in cui riesce ancora a offrire a tutti gli utilizzatori, che si trovano soprattutto nel Nord Italia, un prodotto che ha un 15-20% di costo inferiore rispetto a quello dei concorrenti esteri», spiega Mapelli.
Il fattore prezzo, finora, ha sempre costituito una grossa barriera all’ingresso dei competitor stranieri sul mercato italiano. Nel momento in cui viene meno lo sconto, la fornitura di Ilva non conviene più e si può comprare anche al di fuori dei confini italiani. «Una produzione e un’offerta così basse fanno venire meno i vantaggi dei prodotti di Ilva sul sistema produttivo italiano», spiega Mapelli.
Ecco perché ridimensionare la capacità produttiva e l’offerta di Taranto avrebbe una ricaduta a cascata sulla filiera della manifattura italiana, prevalentemente vocata all’esportazione. La materia prima nazionale a un prezzo più competitivo è sempre stato uno dei punti di forza per poter essere fornitori della componentistica per tutte le industrie metalmeccaniche europee, a partire dalle industrie automobilistiche tedesche fino alle aziende che producono tubi saldati per il trasporto del gas. «Vorrebbe dire far perdere competitività all’export che è stato un punto di forza della nostra economia», spiega Mapelli. «Un’economia che, nonostante il debito pubblico elevato, si regge proprio perché ha una bilancia commerciale in attivo».
Se la componentistica italiana ha una qualità superiore rispetto a molti concorrenti esteri, è anche perché le aziende italiane hanno investito quei risparmi sulla materia prima nel miglioramento della qualità dei prodotti e in macchinari di elevato livello. Nel medio periodo, se dovessero venire meno questi margini, non si riuscirebbero a garantire quegli investimenti necessari per stare al di sopra dei concorrenti: è questo il ragionamento «Per ora non si sente ancora in modo forte però in prospettiva è un pericolo che può manifestarsi», dice Mapelli.
Ma ci sono già altri concorrenti vicini che stanno aggredendo il mercato. Come gli austriaci della Voestalpine, «che stanno certamente approfittando della mancanza di prodotti piani (core business di Taranto, ndr) sul mercato italiano, di cui si servono soprattutto le industrie tra Friuli Venezia Giulia, Veneto, Trentino, Emilia Romagna, Lombardia e Piemonte». Più tempo si perde nelle negoziazioni con Mittal, più altri competitor potrebbero farsi spazio nel mercato.
«Qui si sta discutendo del futuro della manifattura italiana», ribadisce Venturi. «Il siderurgico è un settore portante che sostiene automotive, elettrodomestico, aerospaziale e cantieristica. Serve una risoluzione urgente».
Una via d’uscita
«La seconda manifattura d’Europa non può rinunciare all’acciaio», ripetono tutti. Il governo ha esteso il golden power, cioè la protezione pubblica delle imprese strategiche, anche al siderurgico. Ma nello stato in cui oggi versa l’Ilva, servono investimenti enormi per risollevarla. Difficile trovare un imprenditore, in Italia o all’estero, in grado di farsi carico da solo del gruppo. Anche i più diffidenti, ormai, non vedono altra soluzione che quella di un appoggio pubblico.
Secondo Patuanelli, l’ingresso dello Stato ormai è «quasi inevitabile». E anche il ministro dell’Economia Roberto Gualtieri ha detto che «lo Stato è disponibile a intervenire direttamente», ma a patto di «avere un’Ilva forte, che produca tanto, che sia leader mondiale, che abbia 10.700 occupati, che faccia investimenti significativi». Un’ipotesi che trova d’accordo anche Federacciai. Anche Alessandro Banzato, a capo delle Acciaierie Venete e presidente di Federacciai, si è detto favorevole all’intervento statale ma «a tempo» per far fronte alla situazione difficile. E purché l’azienda, dopo un certo periodo, ritorni a un privato.
«Se oggi si desidera salvare l’impianto l’ingresso dello Stato è diventato inevitabile», dice anche Carlo Mapello. «Nessun privato ha una robustezza finanziaria tale da poter intraprendere senza appoggio statale la ristrutturazione di un impianto di quella dimensione».
Ma poi cosa servirà all’Ilva per essere «forte»? Il piano potrebbe richiedere tre step. Per prima cosa bisognerebbe agire sugli impianti. «Investirei i soldi nell’altoforno 5, per rimetterlo in funzione, e nell’altoforno 4», dice Mapelli, che aveva già realizzato un piano per l’Ilva con il commissario Bondi. «Rimuoverei gli altoforni 1 e 2, mentre il 3 ormai è in demolizione da anni. In pratica, toglierei di fatto la “Taranto 1”, quella del 1955. Così lo stabilimento in teoria può tornare a produrre 6 milioni di tonnellate l’anno». Poi servirebbe mettere in sesto le centrali e i gasometri dell’acciaieria. E, dice Mapelli, «andrebbero installati i moderni “forni siviera” (che tolgono ossigeno e zolfo dall’acciaio, ndr) di cui sono dotati tutti i concorrenti di Ilva e che nello stabilimento più grande d’Europa non sono mai stati installati».
Queste mosse servirebbero a rimettere a nuovo «la componente industriale pesantemente compromessa». Ma a patto di «agire contemporaneamente a livello ambientale per evitare dispersioni di polveri, soprattutto dalle cokerie, che sono il punto dolente del ciclo. Si potrebbe ridurre la capacità di produrre coke, limitandola solo a quella necessaria a tenere alimentati gli altoforni 4 e 5». Fatto questo, «si potrà valutare successivamente se passare alla produzione a gas col forno elettrico meno inquinante».
Ma è una pianificazione che richiederà tempo. Solo per la messa in sicurezza della produzione legata al carbone, ci vorranno almeno due anni. E poi serviranno quasi tre anni per passare all’elettrico. «Serviranno investimenti molto pesanti, con tempi di ritorno molto lunghi».
La trattativa
«C’è un silenzio assordante sulle sorti dell’Ilva», confessa Gianni Venturi. «L’unica cosa che sappiamo è che sarebbe consolidata la decisione del governo di intervenire con una capitalizzazione pubblica attraverso Invitalia e che è in corso il negoziato con Mittal per definire gli assetti della nuova compagine societaria a gestione mista pubblico privato, ma non si capisce se lo Stato sarà in maggioranza o in minoranza».
La trattativa è appesa all’accordo del 4 marzo tra governo e ArcelorMittal, che aveva chiuso la causa civile dopo il tentativo di fuga della multinazionale. In quel testo, concordato senza i sindacati, erano previsti gli investimenti green, l’ingresso dello Stato, e soprattutto un piano industriale. Ma, con le parti sociali lasciate fuori, non si affrontava il tema degli esuberi, probabilmente il più rilevante. Nel novembre 2019 Mittal aveva quantificato in circa 5mila i posti da tagliare, poi scesi a 3.500, su 10.700 dipendenti.
I sindacati continuano a non riconoscere quell’accordo, facendo riferimento invece all’intesa del 6 settembre 2018, che vincolava l’azienda agli investimenti ambientali e alla piena occupazione. E che prevedeva il riassorbimento dei 1.700 lavoratori di Ilva in amministrazione straordinaria.
«C’è grande preoccupazione», dice Valerio D’Alò. «L’accordo del 2018, dove il fronte ambientale e quello occupazionale viaggiavano insieme, cade quando il governo cambia le carte in tavola. Prima era prevista una penale di 150mila euro per ogni lavoratore lasciato a casa, dopo il 4 marzo hanno solo la penale di uscita. Ad oggi, i lavoratori in amministrazione straordinaria sono scomparsi dalla trattativa. Non vorremmo che, con l’ingresso dello Stato, si crei un ulteriore bacino di lavoratori in sala d’attesa». Ma le preoccupazioni sono anche strutturali. «Chiediamo che che gli asset rimangano uniti e che la trattativa si faccia per tutti i siti alla stessa maniera, da Taranto agli stabilimenti del Nord», dice D’Alò. «E soprattutto va chiarito quale sarà il ruolo dello Stato. La nostra grande paura è che si replichi una amministrazione straordinaria sotto altro nome, già costata 3,4 miliardi di soldi pubblici sprecati senza realizzare le opere previste nell’Aia (Autorizzazione integrata ambientale). Va chiarito da subito come sarà sorvegliato il percorso».
Le ipotesi per Mittal potrebbe essere due. Restare, ma a fronte di un impegno ridotto, vista la crisi globale dell’acciaio, che significherebbe ancora una volta tornare al tema degli esuberi, di cui i sindacati e il governo non vogliono sentir parlare. O lasciare Taranto e pagare la penale di 500 milioni. Ma ci sarebbe anche una terza via: andare in minoranza rispetto al soggetto pubblico nel futuro assetto societario, evitando così di pagare anche la penale.
Ma da ogni parte è chiaro che Mittal ha già pronte le valigie per andare via. E dopo lo scontro con il governo sullo scudo penale, il coronavirus potrebbe essere il nuovo grimaldello per consegnare le chiavi dell’Ilva allo Stato. Ogni passo falso nella trattativa sarebbe letale. Mentre negli ultimi mesi dal management dell’Ilva sono già state sostituite diverse figure storiche del gruppo, con anni di esperienza alle spalle. L’ultimo, Giuseppe Frustaci, direttore degli stabilimenti ex Ilva di Cornigliano e Novi Ligure, arrivato nell’acciaieria trent’anni fa.