Francis KirpsL’identità del Lussemburgo è stata modellata dal risentimento nei confronti della Germania

Intervista allo scrittore che ha vinto l’European union prize for literature 2020 con un libro di racconti “dal punto di vista degli animali” in cui omaggia i grandi classici della letteratura del Continente

Afp

Ogni lunedì Europea vi porta alla scoperta dei più originali scrittori di successo in Europa, ma poco conosciuti in Italia.

Una lumaca appiccicata sul muro tenta di passare inosservata ai padroni di casa e si abbandona a un lungo monologo. Al centro delle sue riflessioni i ricordi del giorno precedente, i giudizi sugli umani (“sono ovviamente divisi in caste: i lei e i lui. Per quanto possiamo giudicare noi lumache dal nostro punto di vista, i lui sono la casta dominante. Perché è così, nessuno lo sa”), l’ingiusta crudeltà delle trappole di birra – inutili al ciclo della vita –, e l’impossibilità di fuggire ai pericoli. D’un tratto la sua vita ci sembra più complicata e incerta di quella umana, persino degli umani raccontati da Virginia Woolf, al cui “Il segno sul muro” si ispira questo racconto, “La lumaca sul muro”.

Poi un orso polare che fugge dallo zoo di Berlino e insegue palloncini colorati mentre la folla impaurita attorno a lui scatena l’inferno e la città entra nel caos. “I giornalisti online dei principali quotidiani lavoravano febbrilmente. ‘Orso: orrore a Berlino!’, titolava il ‘Bild’ intorno alle 13:52 sostenendo che almeno cento orsi polari avessero invaso Berlino e distrutto interi quartieri”. Una cosa simile in città si era vista solo a inizi Novecento, quando nel racconto “Der Löwe ist los!” di Kurt Tucholsky dallo stesso zoo scappò un leone. 

Allora si accusarono gli ebrei. In questo caso i giornali mettono in dubbio il riscaldamento globale. Ma la delusione dei due animali è simile: “E così quella era la Berlino in cui gli animali dello zoo parlavano continuamente. La Berlino che tutti volevano vedere prima di morire. Scalare la torre della tv, anche una sola volta, era il sogno di ogni giovane capra di montagna. Un selfie alla Porta di Brandeburgo sarebbe stato il massimo della felicità per la gazzella e lo gnu. Partecipare a una sola seduta del Parlamento avrebbe mandato in estasi l’intera fossa dei serpenti”. L’orso invece torna volentieri nella sua gabbia dopo aver visto com’è il mondo fuori.

Una mosca studente di biologia invece un giorno si sveglia e invece di essere come al solito appesa a testa in giù sul soffitto, si ritrova trasformata in un mostruoso vertebrato. “Il suo esoscheletro di chitina blu-nero e scintillante era svanito; invece, Leon era coperto da una membrana elastica, porosa, rosa pastello attraversata da ghiandole, depositi di grasso e rigonfiamenti”. In altre parole, il corpo di un uomo. Anche in questo caso non è difficile trovare il precedente letterario nel Gregor Samsa di Kafka.

Sono tre delle sette storie e un poema di “Die Mutationen” che è valso al lussemburghese Francis Kirps uno dei premi europei per la letteratura 2020. Racconti destabilizzanti e curiosi in cui la mutazione ha un doppio significato: l’antropomorfizzazione dei protagonisti animali e il richiamo esplicito che ogni testo fa a un classico della letteratura europea, mutandone tempi e personaggi ma giocando con gli stessi stilemi narrativi dei modelli: dal flusso di coscienza di Virginia Woolf all’ironia sottile sulla società attuale di Tucholsky, passando per lo straniamento soffocante di Kafka. «Lo vedo più come un omaggio a quei testi, non come una riscrittura, modernizzazione o parodia», spiega l’autore.

Con una laurea in psicologia all’Università di Strasburgo, Francis Kirps vive e lavora a Lintgen, in Lussemburgo. Oltre a romanzi e racconti scrive satira per quotidiani e riviste. «Avevo probabilmente 13-14 anni quando ho iniziato a scrivere idee per storie e romanzi epici e fantastici, che ovviamente non hanno mai visto la luce. Le mie prime influenze sono state Edgar Allan Poe ed Ephraim Kishon. E ovviamente Carl Barks: a 8-9 anni disegnavo fumetti».

I precedenti letterari omaggiati nel libro sono tutti classici europei. Eppure di “mutazioni” la letteratura mondiale è piena. «Non l’ho fatto intenzionalmente», confessa Kirps, «probabilmente dipende dal mio background culturale, dalle cose studiate a scuola e delle biblioteche dei miei genitori e nonni».

Prima di iniziare a scrivere il libro aveva fatto un elenco di oltre venti racconti e autori che vi sarebbero potuti entrare. «In quell’elenco c’erano anche autori non europei: E.A. Poe, Hemingway e Katherine Mansfield, neozelandese, il cui “La festa in giardino” credo sia uno dei migliori racconti mai scritti. Troppo per poterci scherzare, infatti non l’ho inserito».

«Ho voluto lavorare solo su racconti scritti in una lingua che parlo fluentemente: tedesco, francese o inglese. Ecco perché non ci sono autori spagnoli, latinoamericani, italiani, scandinavi o russi: Tolstoj, Garcia Marquez o Murakami, per citarne alcuni. Per questa ragione ho escluso anche Dino Buzzati, che ha avuto un’enorme influenza su di me, con le sue storie surreali, dall’oscuro senso dell’umorismo». 

Alla fine gli autori nel libro sono nove. Non sono mancati i fallimenti: «Avrei voluto includere “Il tunnel” di Dürrenmatt, “Tristano” di Thomas Mann e il racconto su Licaone dalle Metamorfosi di Ovidio». Cosa non ha funzionato in Ovidio? «Non ero soddisfatto del risultato, forse perché le metamorfosi di Ovidio sono già esse stesse “mutazioni” letterarie, poiché attingono al mito, a storie ellenistiche preesistenti, al genere della “poesia della metamorfosi”, all’“Ornithogonia” di Boeus, al pantheon greco-romano. Ovidio ha rielaborato tutto ciò in modo giocoso e artistico, prendendosi molta libertà creativa e discostandosi dagli “originali”».

«Ho scelto il titolo “Die Mutationen” però proprio perché viene dalla parola latina per metamorfosi, trasformazione. Può significare sia una trasformazione magica, divina: è il caso dell’essere umano trasformato in cicogna de “La storia del Califfo Cicogna” di Wilhelm Hauff. Oppure una mutazione moderna, scientifica: è un po’ quello che accade nel racconto ispirato a Kafka, che coinvolge una mosca-studente di biologia che cerca di analizzare la sua nuova condizione in modo scientifico, permettendomi di prendere un po’ in giro la supponenza di certi studenti».

Kirps nega che dietro la scelta di autori solo europei, seppur inconsapevole, si possa leggere un profilo comune, un’aria di famiglia che attraversa la letteratura del vecchio continente. «Una categoria come “letteratura europea” sarebbe artificiale. Tutta la cultura è connessa, ci sono archetipi e narrazioni comuni a tutta l’umanità fin dai primi giorni della nostra storia. Tanto più ciò vale per l’archetipo della mutazione e della simbologia animalesca, che ricorre nella mitologia e nelle religioni di tutto il mondo». 

«Poi dove si interrompe l’Europa? Malta culturalmente e storicamente ha forse più cose in comune con il Nord Africa che con la Norvegia, la Bulgaria più con la Turchia e il Medio Oriente che con il Belgio. Credo che l’Europa sia principalmente una costruzione politico-economica, che in questo senso unisce gli abitanti della penisola occidentale del continente eurasiatico».

Se gli animali avessero voce in capitolo nelle nostre scelte politiche ne usciremmo migliori? «Difficile a dirsi. Nel racconto “Der letzte seiner Art” (L’ultimo del suo genere) due alieni meditano sull’estinzione della razza umana, causata dalle guerre e dalla distruzione ambientale. Ma il punto di vista degli animali è totalmente altro rispetto a quello umano, nelle mutazioni non tiro fuori l’umanità degli animali, ma al contrario assumo il punto di vista animale per uscire dalla nostra visione del mondo antropocentrica. Certo, a pensarci bene forse solo un bradipo gigante avrebbe abbastanza pazienza da affrontare il colosso burocratico che l’Unione europea è diventata. Ma i bradipi giganti purtroppo sono estinti, e vivevano in Sud America».

In un precedente racconto satirico, “Planet Luxembourg”, Kirps ironizza sulle dimensioni del Lussemburgo: “le mappe del Lussemburgo vengono realizzate generalmente in scala 1: 1. Quelle particolarmente dettagliate sono anche più grandi del paese stesso e quindi possono essere vendute solo all’estero”. Non deve essere facile per uno scrittore vivere in un paese di poco più di mezzo milione di abitanti e 2500 chilometri quadrati. 

«Se ti senti in gabbia o soffocato dalle dimensioni ridotte, devi solo guidare o camminare per 50 chilometri in qualsiasi direzione e ti ritrovi in ​​un altro paese. Quindi è facile “fuggire”. Il Lussemburgo è un crocevia, un piccolo paese di confine tra Francia e Germania e tra le loro culture e mentalità abbastanza diverse». 

«Essendo un paese molto giovane, è difficile individuare un tratto comune negli abitanti. Diciamo che siamo pragmatici: di mentalità aperta o meno a seconda di quello che funziona meglio al momento. E soprattutto non siamo tedeschi. Essere stati invasi due volte dalla Germania, nonostante fossimo neutrali, probabilmente ha fatto più per l’identità lussemburghese di ogni altra cosa. È stato anche uno dei motivi per cui oggi il paese è più rivolto verso la Francia, benché linguisticamente apparteniamo al gruppo tedesco. Il risentimento contro i tedeschi è durato almeno fino agli anni Ottanta, interessando tutte le generazioni che avevano vissuto la seconda guerra mondiale».

Pur nelle sue dimensioni ridotte, il Lussemburgo è stato cruciale nella creazione e nella storia dell’Unione europea, essendo tra i Paesi fondatori, quasi ne fosse un prototipo: «Il 40 per cento degli abitanti sono stranieri e espatriati. La città di Lussemburgo, con i suoi funzionari europei, ha un’atmosfera molto cosmopolitica per essere così piccola. Si aggiungano le persone emigrate dall’Europa meridionale, dalla ex Jugoslavia, e si ottiene un vero e proprio melting pot. Date le dimensioni ridotte si può avere anche una facile visione d’insieme di tutto questo. Quindi sì, è una specie di prototipo di un’Europa più unita, con i suoi aspetti positivi (scambi culturali e umani, apertura mentale) e negativi (tensioni sociali, razzismo). È comunque un melting pot che si è creato in modo abbastanza naturale, organico, più simile a quello degli Stati Uniti che a quello dell’Europa unita, più artificiale».

Sul futuro politico del continente Kirps non è particolarmente ottimista: «Preferisco ovviamente che le persone e gli stati siano uniti e in pace. Ma a parte l’idealismo, credo sia difficile: siamo e rimarremo popoli diversi. I miglioramenti credo saranno lenti, poiché coinvolgono così tante persone, paesi, background e opinioni diverse». 

Il pericolo maggiore secondo lui viene dal rafforzarsi dei movimenti di estrema destra: «Un grande errore è quello di dare tutta la colpa degli estremisti ai loro elettori, prendendoli in giro, considerandoli stupidi, emarginandoli dal discorso pubblico, considerandosi diversi da loro perché persone “buone”. È quello che fanno troppi cosiddetti liberal o progressisti. Dietro alle persone insoddisfatte della democrazia ci sono ragioni che dobbiamo capire se vogliamo cambiare la situazione». 

«La percezione che in Europa si ha di Trump come un buffone è significativa, da una parte lui non ne viene scalfito, dall’altra ci aiuta a distrarci dai nostri problemi: i migranti che affondano nel Mediterraneo, gli schiavi in ​​Libia, il rafforzarsi dell’estrema destra in Ungheria, Francia, Germania».

Più facile per Kirps dire cos’è l’Europa oggi: «Innanzitutto la penisola più occidentale dell’Eurasia. Ma nonostante tutte le critiche e lo scetticismo che si può avere nei confronti dell’Unione, oggi un po’ fatta saltare per aria, resta una grande cosa: nessuno nei primi anni Ottanta avrebbe potuto immaginare che oggi si sarebbe potuto lavorare o avere a che fare con persone dall’Estonia o dall’Albania con la facilità di oggi». 

Negli anni Ottanta Europa per Kirps significava soprattutto una cosa: il calcio. «Prima di imparare a leggere i risultati e le classifiche sul giornale non mi interessava. A 8 anni ho cominciato ad andare con mio padre e i miei zii alle partite della nostra squadra, l’Avenir Beggen. Ma la vera svolta è stata quando ho scoperto le coppe europee, che allora erano tre. Ne sono rimasto affascinato: erano molto più emozionanti delle leghe nazionali». 

«Una delle cose più affascinanti erano i nomi delle squadre, spesso misteriosi e divertenti: Grasshopper Zürich, Servette Geneva (ad oggi non so cosa significhi e non vorrei rovinarmi il mistero cercando su Google), Panathinaikos Athens, Steaua Bucharest, Ferencvaros. Poi quelli delle squadre dell’Europa orientale, con tutti quei Dynamo, Torpedo, Metallurg, provenienti da luoghi di cui non avevo mai sentito parlare».

«Era l’epoca della guerra fredda, ancora si distingueva tra “noi” e “loro”, e molti giocatori del blocco orientale sfruttavano quell’occasione per defezionare e rimanere in Occidente: molto elettrizzate per un bambino, sembrava un romanzo di spionaggio».

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