Tende, panchine ai giardinetti, bagagliai di auto parcheggiate e perfino carrelli del supermercato: per una settimana la Russia si è riempita di “seggi” improvvisati dove votare gli emendamenti costituzionali proposti da Vladimir Putin.
Per gli elettori erano previsti regali, dai portachiavi ai buoni sconto da spendere al supermercato o per pagare le bollette, e lotterie gratta e vinci con in palio anche premi costosi come telefonini, automobili e perfino appartamenti. Per chi ha preferito rinunciare ai premi per paura del Covid c’era il voto online, ma un rapido esperimento del giornalista della TV d’opposizione Dozhd Pavel Lobkov ha stabilito che nulla impediva di votare due volte, su Internet e al seggio fisico.
Migliaia di russi hanno scoperto, al contrario, di aver già “votato”, con i loro nomi già segnati nelle liste degli elettori che avevano votato. I bollettini precompilati, e gli arresti degli scrutatori che avevano osato contestarli, come le migliaia di segnalazioni di pressioni esercitate da direttori di fabbriche, presidi scolastici, primari ospedalieri sui dipendenti pubblici non hanno nemmeno fatto più notizia.
Del resto, la presidente della Commissione elettorale centrale Ella Pamfilova ha subito messo in chiaro: non si trattava di un referendum, ma di una «votazione nazionale eccezionale», alle quali non si applicavano nemmeno le regole elettorali della legge russa, niente osservatori, niente par condicio, niente controllo degli scrutini o segretezza del voto, al punto che i primi risultati erano stati annunciati a urne ancora aperte.
Il risultato di questo circo è la nuova Costituzione putiniana, approvata in un voto che il Cremlino ha definito «trionfale» (ma le virgolette andrebbero messe semmai sulla parola “approvata”). Ora Putin potrà “azzerare” i suoi quattro mandati precedenti e ricandidarsi nel 2024 e anche nel 2030, per un regno che potenzialmente potrebbe durare fino al 2036.
Ufficialmente, il 68% dei russi è andato alle urne (o ai carrelli del supermercato) per esprimersi a favore con il 78% dei voti, due punti in più delle elezioni presidenziali del 2018. La popolarità di Putin non può che crescere, e diverse regioni hanno segnato percentuali dell’80-90%, nonostante perfino i sondaggi ufficiali registrino ogni mese un nuovo minimo storico dei consensi al Cremlino.
Gli exit poll indipendenti però presentano numeri opposti: il 55% degli interrogati ha dichiarato di aver bocciato gli emendamenti. Dalle stime statistiche dell’opposizione viene fuori il «voto più falsificato della storia», 27 milioni di voti inesistenti, con un voto reale valutato in un 40% di affluenza e circa il 64% a favore, cioè 28 milioni di sostenitori di Putin, soltanto un quarto degli aventi diritto al voto. Perfino i dati ufficiali hanno mostrato appena il 50% dei “sì” nel seggio moscovita dove ha votato lo stesso Putin (senza l’obbligatoria mascherina), e nella notte alcune regioni che avevano bocciato gli emendamenti, come la repubblica di Komi, sono state soggette a una «correzione di errori tecnici» che ha ribaltato le percentuali.
Il risultato del “voto nazionale” è una vittoria di Pirro: permette a Putin formalmente di ricandidarsi per altre due volte, e il presidente russo ha già annunciato che lo farà perché altrimenti «tutti si guarderanno in giro in cerca di altri candidati», una prassi normale in una democrazia, ma una blasfemia in Russia. Ma le modalità del voto – organizzato in piena epidemia di coronavirus, al costo della revoca del lockdown – segnano la fine dei tentativi di Putin di frequentare da pari grado il salotto buono dei leader mondiali.
Non è più un leader simil-occidentale, per quanto “illiberale”: con il voto gratta e vinci è entrato nel club dei dittatori di failed state africani e asiatici, e dei líder máximo sudamericani. Un finale deludente per lui e per tutti gli esperti internazionali che per un ventennio hanno dedicato pagine e copertine al fenomeno putiniano e al carisma del leader forte. La risposta al quesito sollevato vent’anni fa in una memorabile riunione a Davos, «Who is Mr. Putin?» è «uno che organizza gratta e vinci ai seggi per rimanere al potere per 36 anni».
L’altro cambiamento epocale è il rapporto che d’ora in poi il presidente avrà con il popolo che governa. L’incredibile longevità, e l’assoluta onnipotenza dell’ex tenente colonnello dell’ex Kgb e vicesindaco di Pietroburgo, si è basata per vent’anni su una popolarità reale. Manipolata, sorretta da censura e propaganda, ma reale. I risultati “veri” delle elezioni sarebbero stati diversi in un contesto di competizione democratica, ma quasi certamente Putin le avrebbe vinte lo stesso. Non più.
Secondo il sociologo Sergey Belanovsky, quello che aveva predetto i moti di piazza del 2011, il 58% dei russi non approva l’”azzeramento” dei mandati presidenziali, e il 63% era contrario agli emendamenti (di questi buona parte hanno “votato con i piedi”, anche perché l’opposizione si era spaccata tra il boicottaggio e il voto per il “no”, entrambi inutili in presenza di una falsificazione totale). Ma dal 1 luglio 2020 la “maggioranza putiniana” non esiste più. Perfino numerosi esponenti del potere – deputati locali e sindaci – hanno votato “no”, e la valanga di insulti nei social alle star dello sport e dello spettacolo che hanno fatto campagna per Putin ha spinto molti influencer a rinunciare alle laute offerte del Cremlino per non perdere il proprio pubblico.
La “minoranza putiniana”, secondo i sondaggi, è formata essenzialmente da due categorie: i dirigenti e i pensionati. La campagna elettorale ha mostrato di esserne consapevole, con spot omofobi ed emendamenti propagandistici come quello sulla «tutela della verità storica» sul ruolo russo nella Seconda guerra mondiale. Per tutti gli altri, in un lampo di genio difficilmente spiegabile, il governo ha introdotto alla vigilia del voto un aumento dell’aliquota Irpef e delle spese sulla manutenzione degli immobili comunali (nei quali abita la maggioranza dei russi). E l’esplosione di esilaranti meme e video ironici soprattutto sui social dei giovani come Instagram e TikTok mostra una frattura generazionale che non potrà che aumentare.
Lo stesso Putin ha commentato la necessità degli emendamenti con il fatto che la Russia è «ancora uno Stato in formazione» dopo il collasso dell’Urss. È stato un presidente post-traumatico, che ha camminato con la testa rivolta all’indietro insieme ai suoi elettori, una postura che solo il caropetrolio ha reso possibile per vent’anni.
L’inevitabile mutazione demografica, insieme alla crisi economica, alla corruzione e alla disastrosa gestione della pandemia hanno distrutto la magia di un presidente amato dal suo popolo. Lo scontento è diffuso, si tocca con mano sui social e Belanovsky si chiede «come potrà Putin governare un popolo che lo odia?».
Il Cremlino voleva confermare la legittimità del leader in un voto che sarebbe stato un plebiscito da acclamazione, ma non ha fatto che darle un colpo fatale. Nel momento in cui invece che “zar” o “capo” i social lo chiamano “nonno” non è più un dittatore carismatico che incute paura insieme a rispetto, ma uno che invece di comprare mascherine e pagare sussidi di disoccupazione spende miliardi di rubli per organizzare parate in piazza Rossa.