*Pubblicato originariamente da Radio Free Europe il 30 giugno 2020, selezionato e tradotto da Osservatorio Balcani e Caucaso Transeuropa
L’incontro che si sarebbe dovuto tenere alla Casa Bianca tra rappresentanti serbi e kosovari è stato cancellato a seguito dell’incriminazione di Hashim Thaçi per crimini di guerra e crimini contro l’umanità. Secondo alcuni il Tribunale speciale per i crimini di guerra con sede all’Aia starebbe cercando di impedire un accordo tra Belgrado e Pristina che renderebbe intoccabile il presidente kosovaro. Che ne pensa?
Sono sorpreso dalla tempistica di questa accusa. Ma fin dall’inizio avevo dubbi e un’opinione negativa anche sull’iniziativa americana, che non può avere successo senza l’impegno degli europei. La strategia della Casa Bianca – che io chiamo “diplomazia Rambo” – non può far procedere le cose. Al momento non c’è alcun conflitto armato nella regione: dobbiamo quindi cogliere l’occasione per prenderci tutto il tempo necessario per negoziare. L’iniziativa americana non può funzionare senza gli europei. Se questo processo andrà bene speriamo inoltre che il Kosovo un giorno divenga membro dell’Unione. In ogni occasione in cui americani ed europei sono riusciti a trovare una lingua comune, sono riusciti a raggiungere i loro obiettivi.
Si dice che gli europei, soprattutto la Germania, abbiano voluto reagire agli Stati Uniti, sospettati di essere i responsabili della caduta del governo di Albin Kurti, anche per impedire un possibile accordo sullo scambio di territori. Si pone tuttavia la questione di come l’Unione europea sia stata in grado di influenzare un procuratore statunitense…
Naturalmente queste sono solo speculazioni e non vorrei dare loro più importanza di quanta ne meritino. È più importante, a mio parere, concentrarsi sulla nuova situazione e su ciò che si può fare. A mio parere, [l’inviato dell’Unione] Miroslav Lajčák ha un’occasione d’oro per riaffermare le regole europee sull’intermediazione e per ottenere un accordo da Belgrado e Pristina su questi principi. Tuttavia, va notato che è stata rafforzata la posizione del presidente serbo Aleksandar Vučić. Questo perché in Kosovo il governo di Avdullah Hoti è estremamente debole. A mio parere, presto si dovranno tenere nuove elezioni in Kosovo.
Il dialogo sponsorizzato dagli Stati Uniti continuerà? Richard Grenell, emissario di Donald Trump, nega qualsiasi conflitto con gli europei, che si sono lamentati di non essere stati consultati prima dell’incontro di Washington. Secondo Richard Grenell, gli americani dovrebbero occuparsi dell’aspetto economico, mentre gli europei avrebbero il compito di negoziare un accordo politico. Questa attenzione all’economia può aiutare a trovare un compromesso politico o è solo una misura di ripiego?
Ho seri dubbi sul successo di un tale approccio. Come possiamo attirare investimenti esteri diretti nella regione senza una soluzione politica? Il conflitto irrisolto tra Serbia e Kosovo è senza dubbio una delle ragioni dietro alla loro mancanza di sviluppo economico. La necessaria normalizzazione delle loro relazioni può avvenire solo attraverso negoziati su questioni politiche. Naturalmente si può anche discutere di un miglioramento delle condizioni economiche, ma questo non sarà attuabile senza una soluzione politica. Temo che questo sia un tentativo di applicare ai Balcani il piano americano di pacificazione del Medio Oriente, che è destinato a fallire. Dobbiamo coinvolgere il maggior numero possibile di attori politici. A mio parere, dovremmo anche stabilire relazioni pragmatiche con Mosca e Pechino, in quanto hanno il diritto di veto nel Consiglio di sicurezza dell’Onu. Gli Stati Uniti e l’Unione europea possono agire come mediatori per trovare una soluzione politica, ma senza l’accordo delle altre potenze, soprattutto la Russia, il Kosovo non entrerà mai nell’Onu.
Le trattative patrocinate dagli Stati Uniti continueranno, nonostante la situazione?
Non so, forse sì, ma le possibilità di successo sono state drasticamente ridotte. Ad essere sincero, penso che l’iniziativa americana sia da considerarsi morta, perché non vedo come potrebbe essere ripresa.
Si potrebbe avere l’impressione che sia Thaçi che Vučić fossero più favorevoli a negoziati sotto il patrocinio di Washington, perché questi negoziati, si presumeva, presupponevano uno scambio di territori, a cui l’Unione però è radicalmente contraria…
La cosa più importante, a mio avviso, è motivare Serbia e Kosovo a impegnarsi per creare una situazione vantaggiosa per entrambe le parti. Una situazione del genere può essere politica, può essere economica, e forse anche territoriale. Naturalmente quest’ultima opzione – lo scambio di territori – è rifiutata da molti, a cominciare dalla Germania, per arrivare poi alla Francia e altri attori, anche in Kosovo e in Serbia. Non so quale sarà il risultato finale, ma una delle funzioni dell’intermediazione è quella di permettere che tutte le opzioni rimangano aperte. È molto importante che sia Belgrado che Pristina trovino un accordo reciproco, perché sono loro che dovranno mettere in pratica questa soluzione e difenderla. Questo è ciò che ho imparato dalla mia esperienza degli accordi di Dayton in Bosnia ed Erzegovina, dove gli attori stranieri hanno imposto una soluzione che non ha funzionato. Ancora oggi, a 25 anni dalla firma di quegli accordi, persistono gli stessi problemi. Perché sono ancora lì? Perché questa soluzione è stata imposta. Ha avuto un ruolo positivo nel porre fine alla guerra, ma non è stato un progetto adatto ad un futuro democratico per la Bosnia Erzegovina. Si tratta di una trappola che deve essere evitata a tutti i costi nel caso del Kosovo.
Richard Grenell ha detto che non ci sarebbe stato alcuno scambio di territori a Washington…
Le questioni territoriali sono sempre state importanti nei conflitti dell’ex Jugoslavia. Molti confini sono stati modificati, prima di tutto con lo smantellamento della Federazione. Seguirono i conflitti sui confini tra le sue ex repubbliche: tra Montenegro e Kosovo, tra Serbia e Croazia, tra Slovenia e Croazia nel Golfo di Pirano… Il disegno dei confini non è un problema irrisolvibile, se viene affrontato correttamente. Ecco perché non dovremmo escludere questa opzione fin dall’inizio. Rimango convinto che non dovremmo reagire in modo epidermico alla questione della demarcazione dei confini: questa infatti non costituirà mai una soluzione in sé e per sé, ma può farne parte. Miroslav Lajčák ha escluso questa possibilità, ma non Josep Borrell, capo della diplomazia europea. In realtà, l’Unione europea non ha una posizione definitiva su questo tema.
In questo caso non si tratta di tracciare confini, ma di scambiare territori. Molti temono una reazione a catena con conseguenze regionali disastrose, soprattutto per la Macedonia del Nord e la Bosnia Erzegovina…
Sono d’accordo con lei. Se ci dovesse essere un accordo, dovremmo procedere con molta cautela perché c’è il rischio che la situazione possa sfuggirci di mano. Tutto questo dovrebbe rientrare in un difficile processo di negoziazione, per evitare conseguenze in altre parti dei Balcani. Gli americani hanno ragione a sottolineare l’importanza di migliorare la situazione economica perché la popolazione, soprattutto i giovani, sta lasciando a frotte i Balcani, e questo processo deve essere fermato. Se i negoziati tra Belgrado e Pristina si trascineranno troppo a lungo – senza alcuna possibilità di migliorare la situazione economica – la regione continuerà ad essere svuotata della sua popolazione. In passato abbiamo assistito alla pulizia etnica nei Balcani. Oggi stiamo assistendo ad una “pulizia economica” – la desertificazione della regione a causa della mancanza di posti di lavoro e di un forte senso di sicurezza. Per questo è importante trovare una soluzione globale, che comprenda anche l’idea americana di un’area di libero scambio. Questo contribuirebbe ad avvicinare la popolazione, stimolerebbe lo sviluppo economico e rappresenterebbe un’eccellente preparazione per l’adesione all’Unione europea. È su questo che dobbiamo concentrarci, non tanto sulla ridefinizione dei confini.