Da settembre si tornerà allo stadio. Almeno nelle intenzioni del ministero dello Sport, della Figc e dei venti club di Serie A. Lo ha detto la settimana scorsa proprio il ministro dello Sport Vincenzo Spadafora: «Se la curva epidemiologica lo consentirà, a settembre si potrà tornare a vedere il pubblico negli stadi».
Tutte le parti coinvolte sono al lavoro per trovare una nuova organizzazione, un nuovo protocollo, una nuova normalità. Alcuni più di altri: il presidente della Figc Gabriele Gravina all’inizio di questa settimana ha definito l’attuale protocollo «molto dispendioso dal punto di vista economico, quasi insostenibile per società e atleti. Sono molto preoccupato perché abbiamo bisogno di trovare delle soluzioni per settembre e siamo in ritardo».
La Figc avrebbe voluto riportare i tifosi allo stadio già nella fase conclusiva di questa stagione, quanto meno per una sorta di beta test in vista della prossima. Ma i tempi sono troppo stretti e dalla settimana prossima si manderà in archivio la stagione, senza pubblico.
Dal ministero dello Sport invece sembrano preferire posizioni più caute. Fonti interne al ministero sentite da Linkiesta hanno in qualche modo rimandato tutto a data da destinarsi: «Tutte le valutazioni del caso saranno affidate al comitato tecnico scientifico. Le decisioni dovranno tener conto dei futuri bollettini, della curva dei contagi. È inutile fare previsioni da fine luglio per la seconda metà di settembre. Dunque le decisioni verranno prese solo a ridosso della prossima stagione». Con tutto quel che comporta: ad esempio la difficoltà per i singoli club di conoscere la loro situazione finanziaria.
Per la Serie A riavere il pubblico allo stadio significa in primo luogo poter contare su una quota di circa 250 milioni di euro proveniente dai botteghini: è la cifra calcolata per la stagione 2018/19. «Se escludiamo dal discorso – dice a Linkiesta un referente della Serie A – il dettaglio non da poco di un prodotto tv meno appetibile senza tifosi, nessuno può rinunciare a certe cifre a cuor leggero. Per questo la Lega ha già elaborato un documento per la ripartenza».
Si tratta di un dossier di circa 300 pagine – presentato alla Figc, che è al tavolo con il ministero della Salute e con il ministero dello Sport – che delinea un nuovo protocollo di sicurezza per la prossima stagione. Sono previste nuove regole per quanto riguarda tutte le potenziali criticità: afflusso e deflusso del pubblico, orari di arrivo, i comportamenti all’interno dell’impianto, tutto valutato stadio per stadio all’interno di un unico documento.
Si parla soprattutto di ripartire con una cifra compresa tra il 25 e il 40 per cento di tifosi, in base alle possibilità dell’impianto – ad esempio a San Siro o all’Olimpico si potrebbero aprire i tornelli a una cifra compresa tra i 30mila e i 35mila spettatori a partita – e lasciando ai singoli club la libertà di scegliere come muoversi per i biglietti e gli abbonamenti da mettere a disposizione di un ristretto nucleo di tifosi.
Con il rischio di scontentarne una parte: l’Inter, ad esempio, ha venduto 41mila abbonamenti quest’anno, in caso di apertura parziale di San Siro e di conferma da parte di tutti gli abbonati, ci sarebbe un surplus di 6mila tessere da riorganizzare, con la decisione demandata alla dirigenza nerazzurra. Ma sarebbe lo stesso per la Fiorentina (28mila abbonati su 43mila posti disponibili), per la Juventus (27mila abbonati su 41mila posti), o il Lecce (quasi 19mila abbonamenti venduti su circa 31mila posti omologati).
Alfredo Parisi, presidente di Federsupporter, dice a Linkiesta che «se la decisione iniziale di far ripartire il campionato senza tifosi era già stata osteggiata dai tifosi, riaprire gli impianti solo in parte è anche peggio».
Parisi ne fa un discorso di tutela economica dei tifosi e di rispetto verso chi contribuisce a rendere il “prodotto” Serie A migliore: «Si parla di un 25 per cento, bene, chi è questo 25 per cento? Aprire solo a poche persone è una scelta folle, prima di tutto dal punto di vista sociale e di etica sportiva. Se il calcio, e in generale lo sport, viene fatto solo per incassare i soldi allora si può continuare ad andare avanti a porte chiuse, perché tanto i soldi veri sono quelli dei diritti televisivi. Cosa volete che siano quei 250 milioni diviso 20 club, che fatturano tutti decine, se non centinaia di milioni di euro».
Oltre ai supporter c’è un’altra componente, rimasta sullo sfondo, che deve rientrare nell’equazione. Sono gli steward: uno degli ingranaggi invisibili degli eventi, non solo calcistici, anche per concerti e altre manifestazioni simili. Senza di loro non ci sono le condizioni di sicurezza per far entrare migliaia di persone in uno stadio, in un’arena o in un qualsiasi impianto.
«Difficile immaginare di ospitare migliaia di persone in uno stadio ed evitare assembramenti all’entrata e all’uscita, soprattutto nelle partite infrasettimanali dove la gente tende ad arrivare a ridosso dell’inizio e ad uscire subito dopo la fine», dice a Linkiesta Jacopo Musciolà, presidente Steward italiani associati (Sia). «Inoltre, paradossalmente aprendo gli stadi a meno persone per far rispettare le distanze potrebbe comportare un impiego di più steward proprio per garantire la supervisione, che tra l’altro potrebbe essere impossibile se consideriamo cosa succede in uno stadio quando segna la squadra di casa».
E non è detto che sia così semplice trovare disponibilità sul mercato. «Già in tempi normali – dice Musciolà – era difficile reperire nuovi steward. Trovarne di più sarà un’impresa. Si consideri che in un grande stadio italiano come l’Olimpico, il San Paolo o San Siro, sono impiegate diverse centinaia di steward, diciamo tra i 500 e i 1.000, in base al numero di biglietti venduti. Oggi ce ne sono poche decine per le misure di sicurezza, e parliamo di lavori occasionali quindi molti che sono rimasti a casa in questi mesi si saranno messi alla ricerca di nuovi impieghi».
Gli steward sono una componente fondamentale anche per concerti e altri eventi. Al di fuori dello sport, però, l’organizzazione sta seguendo altre direttrici. Intanto perché i grandi concerti estivi sono stati spostati in blocco alla stagione successiva: impossibile farli in inverno, quando fa più freddo e quando gli stadi sono impiegati con più frequenza. Così i promoter, da Vivo Concerti a Friends&Partners a Bpm, sono stati costretti a traslare tutto di un anno, dandosi una finestra temporale più ampia per cercare una soluzione.
Parlando a Linkiesta, Stefano Bottura, direttore di Rock it e organizzatore del Mi Ami Festival, ha indicato alcune delle criticità cui sta andando incontro il settore: «Se i grandi impianti perdono capienza massima allora i grandi eventi sono economicamente insostenibili, a meno di interventi massicci degli sponsor».
Alternative non ce ne sono molte, dice: «È possibile che aumentino i prezzi dei biglietti, escludendo una fascia di pubblico, ma non possono salire più di tanto per non andare fuori mercato. E comunque non è detto che basti, perché quando parliamo di grandi concerti parliamo anche di grandi artisti, con cachet enormi, che avrebbero bisogno di masse di pubblico».
In prospettiva potrebbe intravedersi qualche cambiamento radicale nel mercato dei grandi concerti: se gli stadi non possono più ospitare enormi quantità di pubblico, quindi non permettono di sostenere le spese per il concerto di artisti di primissima fascia, allora quegli impianti potrebbero diventare il palcoscenico di artisti meno quotati.
Una suggestione, al momento, ma secondo Bottura verosimile: «Al momento i costi fissi, per affitto e organizzazione non lo consentono, perché serve la certezza di muovere il numero più alto possibile di spettatori. Ma se la crisi dovesse durare allora i gestori delle location potrebbero dover abbassare i costi d’affitto, per necessità, in quel caso è possibile che una band si esibisca in un posto dove non avrebbe mai potuto immaginare di esibirsi».