Per parlare come ShakespeareLa Brexit è un motivo in più per continuare a usare l’inglese

Intervista al linguista olandese Gaston Dorren, autore de “Le 60 lingue che uniscono l’Europa”. Dice: «Non avere angolofoni nell’Unione è un vantaggio. E come diceva Umberto Eco, l’idioma del nostro continente è la traduzione»

Il titolo originale, in inglese, osava meno: “Lingo. A language spotters’ guide to Europe”. In italiano il nuovo libro del linguista e giornalista Gaston Dorren è diventato “Le 60 lingue che uniscono l’Europa” (Garzanti): un doppio paradosso, se si considera che il suo precedente volume, dedicato alle lingue del mondo, si fermava a 20 idiomi.

Com’è possibile che il mondo si potesse spiegare con sole 20 lingue e per raccontare l’Europa ne servano il triplo? Inoltre tutte queste lingue fino ad ora sembrano aver diviso il Vecchio Continente più che averlo unito. Dorren, che parla correntemente sei lingue e ne legge altre nove, risponde in inglese: «Il titolo italiano è molto interessante e intelligente, posso dirlo senza timore di sembrare autocelebrativo perché non l’ho scelto io. Da un lato, va detto che nel libro precedente, “Babel. Le 20 lingue che spiegano il mondo”, prendevo in esame gli idiomi più diffusi, nel mondo ovviamente ce ne sono migliaia. Nel caso dell’Europa invece ho raccontato la maggior parte delle lingue del continente. Sarebbe scorretto però ricavarne l’idea che l’Europa sia particolarmente diversificata dal punto di vista linguistico, è piuttosto l’opposto».

«L’isola di Papua Nuova Guinea ha quasi 900 lingue su 7 milioni abitanti, una ogni 7mila. In Europa abbiamo meno di un miliardo di persone con qualche centinaio di lingue, di cui le principali sono molte meno. Gli altri continenti (escluso l’Antartide) sono più diversificati linguisticamente. Questo ha a che fare con la nostra storia: a spingere verso una maggiore uniformazione linguistica sono stati prima gli imperi, a partire da quello romano, che ha diffuso il latino, alla base di molte lingue europee. E poi dall’età moderna gli Stati nazione, che attivamente hanno provato a ridurre a una le lingue ufficiali utilizzate sul loro territorio».

Resta il fatto che la differenziazione linguistica sembra uno dei maggiori ostacoli all’unificazione del continente europeo piuttosto che un veicolo di integrazione.

«Non nego il paradosso. In un certo senso ovviamente le lingue dividono: se tutti parlassero italiano o olandese sarebbe più semplice, ma allo stesso modo possono unire. Basta chiedere a uno spagnolo se si sente più connesso con il Sud America o l’Europa. Credo che tutte le lingue europee siano uguali nella diversità, contribuiscano alla nostra individualità e ci permettano di sederci attorno allo stesso tavolo ognuno con la sicurezza della propria identità. L’Europa inoltre ha un’antica tradizione di traduzione. Come disse Umberto Eco: la lingua dell’Europa è la traduzione. Non nego il paradosso. In un certo senso ovviamente le lingue dividono: se tutti parlassero italiano o olandese sarebbe più semplice, ma allo stesso modo possono unire. Basta chiedere a uno spagnolo se si sente più connesso con il Sud America o l’Europa. Credo che tutte le lingue europee siano uguali nella diversità, contribuiscano alla nostra individualità e ci permettano di sederci attorno allo stesso tavolo ognuno con la sicurezza della propria identità. L’Europa inoltre ha un’antica tradizione di traduzione. Come disse Umberto Eco: la lingua dell’Europa è la traduzione».

E la traduzione è spesso un punto di forza. «Se vai in una libreria in Norvegia o Portogallo trovi moltissime traduzioni dalle altre lingue europee. Questo altrove non avviene: c’è sempre una lingua dominante che i colti devono sapere per capirsi. In Estremo Oriente per esempio è sempre stato dominante il mandarino, benché parlato da poche persone: che tu fossi coreano, giapponese o vietnamita, fino al secolo scorso se volevi accedere a certi testi dovevi imparare il mandarino».

Oggi le lingue ufficiali dell’Unione sono 24. I cittadini comunitari hanno il diritto di usare una qualsiasi di queste per comunicare con le istituzioni europee, le quali sono tenute a rispondere nella stessa lingua. I testi legislativi sono pubblicati in tutte le lingue ufficiali e i membri del Parlamento europeo possono scegliere quale utilizzare nei loro interventi. Un approccio senza precedenti, né tra gli stati multilingui né tra le organizzazioni internazionali.

Le combinazioni linguistiche possibili tra le 24 lingue ufficiali sono 552. Per coprirle tutte, un discorso o un testo ufficiale al Parlamento europeo viene prima tradotto in inglese, francese o tedesco e successivamente nelle altre.

Di fatto, queste tre lingue sono anche le più utilizzate nelle comunicazioni e negli incontri istituzionali. L’uscita del Regno Unito dall’Unione non comporta l’eliminazione dell’inglese dalle lingue ufficiali, dato che è la lingua anche di Irlanda e Malta, ma c’è chi ha messo in dubbio l’opportunità di continuare a utilizzarlo come principale lingua franca nel Vecchio Continente.

«Scommetto che l’ha detto un francese», azzarda Dorren. «Purtroppo i francesi sono linguisticamente sciovinisti, legati a un passato dominio linguistico che non c’è più. Sono totalmente in disaccordo. Quando parliamo tra noi in inglese oggi siamo tutti sullo stesso livello: poiché non è la nostra lingua madre il rapporto è più paritario. Quindi, dal punto di vista esclusivamente linguistico, è meglio che il Regno Unito non sia più parte dell’Unione e ciò non indebolisce le ragioni dell’uso dell’inglese come lingua franca ma al contrario le rafforza».
Non avere parlanti nativi può essere un vantaggio, dice Dorren, «è la situazione ideale per comunicare e capirsi senza avere posizioni di partenza dominanti o di maggior prestigio: l’inglese per l’Europa diventa in questo modo una specie di esperanto. Credo inoltre che Stati Uniti e Regno Unito siano potenze in declino, che non saranno dominanti a lungo: il nostro continente può fare della lingua inglese quello che vuole».

Non c’è il rischio che il rapporto di minor prestigio continui ad esistere rispetto a questi madrelingua inglesi che ora sono fuori dall’Europa, che quindi le stesse condizioni di subalternità rinascano rispetto a potenze esterne? «La lingua latina arriva dal Lazio, l’italiano dalla toscana, e si sono diffuse rispettivamente in tutta Europa e Italia: nessuno spagnolo oggi si sognerebbe di avere complessi di inferiorità rispetto a un abitante del Lazio e nessuno direbbe che sia stato fatto qualcosa di inopportuno. La lingua è un prodotto culturale che può essere assorbito, sviluppato, cambiato e fatto proprio da ogni comunità. Nel Regno Unito si sente ancora dire da qualcuno che gli americani avrebbero degenerato la lingua inglese. È assurdo perché l’inglese, come qualsiasi lingua, non è proprietà dei britannici. In Europa negli ultimi secoli abbiamo avuto la tendenza a creare Stati nazionali legati inscindibilmente a una lingua. A partire dalla Francia, si è diffusa l’idea “un popolo una nazione una lingua”: ma è un concetto europeo e recente. Altrove e prima degli Stati nazione non è mai stato la norma. L’Unione europea dimostra come un’entità politica possa essere multilingue e dall’altro lato in America latina – dove a creare differenze tra i parlanti di diversi Stati sono l’accento e la pronuncia – vediamo come si possa condividere una stessa lingua mantenendo forti e distinti sentimenti di identità nazionale».

Ci sono lingue europee parlate da poche persone: per esempio l’estone, che ha meno di un milione e mezzo di parlanti madrelingua. C’è il pericolo che scompaiano? «Estone, islandese, lituano: le lingue ufficiali di uno Stato sono in qualche modo protette dall’estinzione: la maggior parte delle persone in questi paesi conducono la loro vita quotidiana con queste lingue, di cui sono orgogliosi. Non credo corrano il rischio di sparire ma al massimo di perdere certi domini. Anche l’olandese per esempio, che ha 25 milioni di parlanti, sta perdendo il dominio scientifico e del business, perché la maggior parte dei corsi scientifici universitari sono in inglese e nelle compagnie multinazionali le persone parlano in inglese».

Una delle lingue morte raccontate nel libro di Dorren è il dalmatico: scomparso, letteralmente, “di botto” quando il 10 agosto 1898 l’ultimo parlante morì per l’esplosione di una mina sull’isola di Veglia, nell’Adriatico. Essendo realtà vive, è naturale che lingue e dialetti possano anche morire: è così grave?

«Dispiace quando una lingua muore, ma non dovrebbe importare tanto per la scomparsa della lingua in sé, quanto per il fatto che ciò è segnale della scomparsa del gruppo che la parlava. Quando una lingua comincia a declinare, smette di essere trasmessa alle generazioni successive, significa che il gruppo sociale e culturale che la parla è in pericolo. Credo che la diversità culturale meriti di essere preservata e mantenuta perché la si potrebbe considerare come un magazzino, un arsenale di soluzioni per i problemi dell’umanità, una valida collezione di approcci alla condizione umana e ai suoi problemi messi in campo da altri gruppi, che a volte funzionano meglio dei nostri tradizionali approcci e strumenti».

Bisogna distinguere tra lingue di piccole società, piccole nazioni, tribù e semplici dialetti. «Se un dialetto scompare è triste, ma solo per una questione di nostalgia, come doversi trasferire perché la tua vecchia casa deve essere abbattuta per farci un’autostrada. È spiacevole, ma è un segno dei cambiamenti del tempo. Se sparisse per esempio l’estone, significherebbe che tutto ciò che è stato scritto in estone – letteratura, canzoni, storie – non sarebbe più accessibile. La perdita sarebbe molto più grave. Lo stesso dicasi per le piccole lingue in Camerun, Papua Nuova Guinea o altre comunità: la loro morte si porta dietro la scomparsa di un modo di vita tradizionale, la loro scomparsa è comparabile a quella di specie animali e vegetali».

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