Cinquantacinque anni, madre indiana e padre giamaicano, senatrice della California, ex procuratore distrettuale di San Francisco e Attorney General della California, prima asio-americana a candidarsi alla Casa Bianca, seconda donna di colore nella storia del Senato di Washington, Kamala Harris è la candidata vicepresidente di Joe Biden alle elezioni di novembre.
Harris è una predestinata che lavora da anni per questo momento. Il 27 gennaio 2019, il giorno in cui ha annunciato di candidarsi alle primarie presidenziali, Kamala Harris ha raccolto ad Oakland, sua città natale, una folla oceanica, che ha colpito anche Donald Trump, solitamente restio a riconoscere i successi degli avversari o di chiunque non si chiami Trump.
Il messaggio della sua campagna presidenziale è stato sulla stessa lunghezza di quello obamiano: non solo rinnovamento a partire dalla biografia, ma soprattutto la capacità di fornire soluzioni intelligenti a problemi complessi e mostrare agli elettori un’edificante storia personale di riscatto sociale.
Dopo quell’inizio sfolgorante, Kamala Harris ha stentato ad emergere tra i tanti candidati, tanto che poi si è ritirata.
C’è stato solo un momento in cui si è fatta sentire. Era il 27 giugno 2019, sul palcoscenico televisivo di Miami, la Harris ha dominato il dibattito democratico assestando numerosi colpi sotto la cintola a Joe Biden.
Il momento chiave dello scambio Harris-Biden è stato quando la senatrice ha raccontato la storia di una piccola bambina che faceva parte della seconda annata di studenti che finalmente uscivano dalla segregazione razziale ancora in vigore nelle scuole pubbliche della California: «E quella piccola bambina ero io», ha detto Harris rivolta a Biden che all’epoca aveva espresso dubbi sulla desegregazione forzosa degli scuolabus pubblici, coniando una di quelle frasi che finiscono dritte sulle t-shirt di tendenza e fanno la storia.
Ma questo scontro pubblico non ha impedito a Biden di sceglierla come sua vice, cosa che dice molto del carattere di Biden.
Harris lo aiuterà a mobilitare gli elettori di colore, ma anche le donne ancora scottate dalla sconfitta di Hillary Clinton nel 2016, fino a oggi l’unica donna nominata da uno dei due partiti principali al vertice del ticket presidenziale. Come vice, Kamala Harris segue Geraldine Ferraro, scelta da Walter Mondale nel 1984, e Sarah Palin selezionata da John McCain nel 2008.
Ma guai a chiedere alla senatrice Harris di parlare di questioni femminili: «Quando qualcuno mi chiede di parlare di questioni femminili – ha detto Harris a Vogue – lo guardo, sorrido e dico che sono molto felice di parlargli di economia o di sicurezza nazionale».
Assistita dalla sorella Maya, già consigliera politica di Hillary Clinton, Kamala Harris farà valere in campagna elettorale e nel dibattito col vice di Trump, Mike Pence, le sue superiori capacità dialettiche, addestrate nelle aule dei tribunali californiani e, più di recente, nelle commissioni al Congresso, dove si è distinta per essere riuscita a mettere in seria difficoltà i membri dell’Amministrazione Trump coinvolti nel Russiagate.
In un Partito democratico che si è spostato molto a sinistra rispetto alla tradizione americana, fino a sfiorare posizioni socialiste, Harris è considerata appartenente all’ala progressista, non moderata, come ha subito fatto notare Trump, ma nella città più di sinistra dell’Unione, San Francisco, le contestano di non aver assecondato, quando era procuratore distrettuale, la decisione di una corte federale che avrebbe portato alla dichiarazione di incostituzionalità della pena di morte, pur essendo lei contraria alla pena capitale e nonostante (o forse proprio per questo) agli inizi della carriera sia stata sul punto di essere rimossa dal ruolo perché non aveva chiesto l’esecuzione dell’assassino di un poliziotto, limitandosi a chiedere l’ergastolo.
Sul fronte dei diritti civili, Harris è stata decisiva nel processo, cominciato in California, che ha portato al riconoscimento giurisprudenziale del matrimonio omosessuale.
L’accusa più ricorrente a Kamla Harris è di essere molto cauta e troppo attenta a prendere posizioni che non la danneggino nelle più importanti sfide successive (la prossima sarà la successione a Biden?): per questo diceva di essere contro la pena di morte a San Francisco, ma evitava di diventarne una paladina quando l’obiettivo era quello di diventare Attorney General di tutta la California convincendo anche elettori meno progressisti di quelli residenti a San Francisco.
Alla seconda Convention nazionale di Obama, a Charleston nel 2012, da Attorney General della California, era stata annunciata in modo previdente come la futura stella del partito indicata personalmente dal presidente, ma il suo discorso fu talmente guardingo e ponderato da risultare noioso ed essere dimenticato seduta stante.
Gli anni al Senato le hanno dato autorevolezza e ora che si appresta ad affrontare la sfida più grande della sua carriera, Kamala Harris sembra finalmente più libera di dire ciò che pensa, ma sempre con la circospezione del caso.