Come Banquo per MacbethL’ombra della leadership di Mario Draghi che inquieta Giuseppe Conte

Sul premier italiano aleggiano da qualche giorno le parole forti pronunciate dall’ex presidente della Bce, indirettamente critiche sulle politiche, gli alleati e le aspirazioni del governo. Ciò che sorprende di più non sono i temi affrontati, quanto il carisma emanato dalla sua figura. Degno di un capo di Stato, capace forse di scongiurare anche la riduzione del numero dei parlamentari

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Che William Shakespeare, o chiunque ne abbia portato il nome, abbia scritto tutto ciò che vi è da scrivere sulla natura umana è cosa nota. Amore, morte, tradimento, profezia, futuro, potere, vendetta e giustizia sono protagoniste di ogni sua opera, talvolta mischiate in trame complicate, talvolta esplicitamente mostrate allo spettatore ieri nel Globe Theatre, sulle rive del Tamigi, oggi nel gran circo dei media di ogni levatura.

Come non ricordare l’incitazione di Enrico V alla vigilia della battaglia di Azincourt ai pochi ma felici «We few, we happy few!» armigeri inglesi, rivelatasi determinante per l’umiliazione dell’arrogante e bleso esercito francese, certo della vittoria; la pretesa della “libra di carne” da parte del mercante ebreo di Venezia, Shylock, quale restituzione del debito contratto in tali termini con Antonio e richiesta ostinatamente alla lettera, salvo poi essere costretto ad aderire ad offerte alternative del Doge durante il processo; le visioni illuminate di Prospero, le deformità di Calibano, la leggerezza di Ariel nell’infuriare della Tempesta; l’orazione funebre in morte di Giulio Cesare in cui Marco Antonio ha l’abilità di parlare al popolo romano quasi come se fosse super partes e non direttamente coinvolto. Si limita, semplicemente, ad esporre i fatti. Ad esporre cioè, cose realmente accadute e che Cesare ha realmente fatto. Azioni e parole per le quali il popolo romano amava e idolatrava lo stesso Giulio Cesare che, dopo le parole di Bruto, sembrano odiare e disprezzare.

O ancora il Sogno di una notte di mezz’estate (commedia dentro la commedia) in cui Puck trasforma uomini in asini ed Oberon dibatte tra inganni e magiche pozioni con la regina delle Fate; o il monologo di Amleto nel castello di Elsinore che celebra l’eterna indecisione dell’Uomo, poi architrave della filosofia dell’angoscia del conterraneo Søren Kierkegaard.

Basta, questa carrellata potrebbe durare all’infinito perché tale è l’orizzonte del comportamento umano e poco o nulla di esso è sfuggito al genio nascosto di Stratford upon Avon (forse Francesco Bacone) posto dal filologo statunitense Harold Bloom tra i primi pilastri del “Canone Occidentale. I libri e le scuole delle Età”, Bompiani, 1996

Tuttavia un particolare approfondimento si richiede per la tragedia Macbeth perché di grande attualità in questi giorni, dopo il discorso di Mario Draghi al Meeting di Comunione e Liberazione a Rimini. La trama è articolata, ma cosa non lo è ?

La tragedia si apre in una cupa Scozia d’inizio Basso Medioevo, in un’atmosfera di lampi e tuoni; tre Streghe decidono che il loro prossimo incontro dovrà avvenire in presenza di Macbeth. La scena cambia: Macbeth e Banquo appaiono sulla scena, di ritorno ai loro castelli, facendo considerazioni sulla vittoria appena conseguita e sul tempo “brutto e bello insieme”, che caratterizza la natura ambigua e carica di soprannaturale della brughiera desolata e pervasa di nebbia che stanno attraversando ma rinvia anche ad altri significati. Le tre streghe, che li stavano aspettando, compaiono e pronunciano profezie. Anche se Banquo per primo le sfida, esse si rivolgono a Macbeth.

La prima lo saluta come «Macbeth, il soldato», titolo che Macbeth già possiede, la seconda come «Macbeth, il generale», e la terza «Macbeth, il re». Macbeth è stupefatto e silenzioso, così Banquo ancora una volta tenta di fronteggiarle, intimorito dall’aspetto delle Sorelle Fatali e dalle condizioni particolari e misteriose del momento. Le streghe dunque informano anche Banquo di una profezia, affermando che sarà il capostipite di una dinastia di re. Poi le tre streghe svaniscono, lasciando nel dubbio Macbeth e Banquo sulla reale natura di quella strana apparizione.

Sopraggiunge dunque il re, che annuncia a Macbeth la concessione a suo favore del titolo di generale dell’armata Scozzese: la prima profezia è così realizzata. Immediatamente Macbeth incomincia a nutrire l’ambizione di diventare re.

Quando Duncan decide di soggiornare al castello di Macbeth a Inverness, Lady Macbeth escogita un piano per ucciderlo e assicurare il trono di Scozia al marito. Anche se Macbeth mostra dei tentennamenti, volendo ritornare sui propri passi e smentendo le ambizioni manifestate nella lettera inviata alla moglie, Lady Macbeth alla fine lo persuade a seguire il piano.

Nella notte della visita, Lady Macbeth ubriaca le guardie del re, facendoli cadere in un pesante sonno. Macbeth, con un noto soliloquio che lo porta a vedere di fronte a sé l’allucinazione di un pugnale insanguinato che lo guida verso l’omicidio del suo stesso re e cugino, si introduce nelle stanze di Duncan e lo pugnala a morte. Sconvolto dall’atto si rifugia da Lady Macbeth, la quale invece non si perde d’animo e recupera la situazione lasciando la coppia di armi usate per l’assassino presso i corpi addormentati delle guardie, imbrattando i loro volti, le mani e le vesti col sangue del re.

A dispetto del suo successo, Macbeth non è a suo agio circa la profezia per cui Banquo sarebbe diventato il capostipite di una dinastia di re, temendo di essere a sua volta scalzato. Così lo invita a un banchetto reale e viene a sapere che Banquo e il giovane figlio, Fleance, usciranno per una cavalcata quella sera stessa. Macbeth ingaggia due sicari per uccidere Banquo e Fleance. Banquo viene dunque massacrato brutalmente, ma Fleance riesce a fuggire. Al banchetto, che dovrebbe celebrare il trionfo del re, Macbeth è convinto di vedere il fantasma di Banquo che siede al suo posto, mentre gli astanti e la stessa Lady Macbeth non vedono nulla. Il resto dei convitati è spaventato dalla furia di Macbeth verso un seggio vuoto, finché una disperata Lady Macbeth ordina a tutti di andare via.

In Inghilterra MacDuff e Malcolm pianificano l’invasione della Scozia. Macbeth, adesso identificato come un tiranno, vede che molti baroni disertano dal suo fianco. Malcolm guida un esercito con MacDuff e Seyward, conte di Northumbria, contro il castello di Dunsinane, fortezza associata al trono di Scozia dove Macbeth risiede. Ai soldati, accampati nel bosco di Birnam, viene ordinato di tagliare i rami degli alberi per mascherare il loro numero.

Alla notizia della morte della moglie e di fronte all’avanzata dell’esercito ribelle, Macbeth pronuncia il famoso soliloquio («Domani e domani e domani»), sul senso vacuo della vita e di tutte le azioni che la costellano, vani atti insignificanti che puntano al raggiungimento di obiettivi che non hanno alcun reale valore. Richiede poi che gli siano portate armi e armatura, pronto a vendere cara la pelle in quello che già sente essere il suo atto finale.

Le analogie sono inquietanti: nella lotta per il potere amici e commilitoni prima sodali e complici l’uno dell’altro, si massacrano a vicenda, uno sembra prevalere e stermina tutti coloro che potrebbero fargli ombra, intuendone il possibile successo futuro e, a tal fine, contrae innaturali alleanze che presto si dissolveranno. A Macbeth si affianca la moglie che, pronta a tutto pur di diventare regina, non esita ad essergli complice nello sterminio degli eredi degli avversari.

Ma la parte più inquietante è quella recitata dall’ombra di Banquo che torna dall’oltretomba per vaticinarne a Macbeth il fato inevitabile, provocandone il terrore: «Va, spirto d’abisso!… Spalanca una fossa,O terra l’ingoia… Fiammeggian quell’ossa! Quel sangue fumante mi sbalza nel volto!Quel guardo a me volto – trafiggemi il cor!»

Su Giuseppe Conte da qualche giorno aleggiano, come l’ombra di Banquo su Macbeth, le parole forti pronunciate da Mario Draghi che suonano come un De Profundis sulle sue politiche, i suoi alleati, le sue aspirazioni.

Ciò che sorprende non sono i temi affrontati dall’ex capo della Bce, sviluppati in mille altre sedi e dibattuti in tutto il Paese, quanto il carisma che da essa è emanato, lucido e potente, perché originato dalla storia personale, dall’alto profilo internazionale e, perfino dalla formazione religiosa che a differenza di quella inedita, eretica e misticheggiante di Matteo Salvini, di quella beghina di Luigi Di Maio e di quella curiale di Giuseppe Conte, non ha bisogno di essere dichiarata perché interpretata in modo nobile e riservato, attraverso comportamenti da uomo retto e profondamente onesto.

Un vero erede dell’indimenticato Carlo Azeglio Ciampi di cui oltre il comune passato professionale, ci auguriamo possa condividere presto anche la massima carica istituzionale, sul Colle più alto.

È stato sufficiente un intervento di poche decine di minuti per oscurare, almeno per alcuni giorni, il chiacchiericcio del Presidente del Consiglio, le comparsate del ministro degli esteri, le Folies Bergère che si agitano nelle stanze di Viale Trastevere di cui ho già scritto, le allucinazioni a viso aperto (cioè nel disprezzo palese della mascherina, reputata indegna di ogni villoso macho che si rispetti) del capo dell’Opposizione, fresco di “patto anti inciucio” con Silvio Berlusconi e Giorgia Meloni.

È stato come se, all’improvviso, si fosse aperta una grande finestra sul futuro e da essa fosse entrata una brezza purificatrice necessaria ad un paese ammorbato non tanto dal virus quanto dalla cattiva politica di questi anni recenti. Quella brezza ha un solo nome. Si chiama leadership e Draghi la possiede in abbondanza e l’ha esercitata in modo garbato e convincente con Angela Merkel, con Emmanuel Macron, con i rappresentanti dei paesi del nord che non ha mai osato chiamare frugali, forse perché parco e riservato egli stesso, con i vertici della finanza europea e mondiale a cui ha fatto accettare il più grande intervento monetario dopo il New Deal di Franklin Delano Roosevelt, entrando nella storia economica con l’espressione più nota dell’economia contemporanea. 

Il «Whatever it takes» apre nella politica europea un altro orizzonte che non aveva precedenti. È il 26 luglio del 2012. L’Europa dell’euro è in grande difficoltà. Sale lo spread in molti Paesi. In Grecia tornano a soffiare pesanti venti di crisi. L’euroscetticismo inglese si gonfia. Quel 26 di luglio, Draghi, da meno di un anno Presidente della Banca centrale europea, sale sul palco della conferenza di Londra e, senza troppi preamboli, dopo una manciata di minuti di introduzione, pronuncia la frase che cambia la storia della crisi: «Entro il suo mandato la Bce preserverà l’euro, costi quel che costi. E, credetemi, sarà abbastanza». Whatever it takes. Da quel momento, si può dire che l’Europa diventi l’Europa di Mario Draghi. A posteriori, lo riconoscono sia gli estimatori, sia i detrattori.

Dagli anni Ottanta in poi, quello che è stato definito al termine del suo mandato di governatore della Banca centrale europea (1° novembre 2011- 31 ottobre 2019) «il più importante uomo di stato europeo dell’ultimo decennio» ha sempre sostenuto nel corso della sua ascendente carriera nel settore pubblico che la priorità per l’Italia fosse la crescita e l’occupazione, che la spesa pubblica dovesse essere a ciò finalizzata.

Draghi fa parte di quell’élite di tecnici dotati di visione politica che condussero fin dentro l’euro l’Italia, legittimata come nazione che, risanati i conti pubblici e avviato un processo di riforme selettive, potesse sfruttare pienamente i benefici che l’appartenenza all’euro avrebbe generato per la crescita e l’occupazione. Proprio per questi trascorsi, all’interno dell’Eurozona Draghi fu accolto con rispetto come candidato alla presidenza della Bce.

Questo rispetto e la sua integrità di giudizio permisero a Draghi di modificare l’orientamento della politica monetaria della Bce: dalle lettere di Trichet ai governi con le severe condizioni da rispettare per meritare l’accesso ai programmi di acquisto dei loro titoli pubblici, Draghi pilotò la Banca centrale europea verso l’impegno incondizionato di sostegno dell’euro. Nonostante che, per una varietà di ragioni, l’inflazione sia rimasta al di sotto dell’obbiettivo del 2 per cento, il Whatever it takes può essere assunto come modo di dire emblematico della salvezza dell’Europa dell’euro.

Tanto emblematico il modo di dire inglese in bocca a Draghi che, nella coscienza dei politici, degli operatori economici e quindi anche dei media, il motto torna ricorsivamente come marcatore linguistico-temporale. C’è un “prima” e c’è un “dopo” Whatever it takes. Per esempio, in sede di bilancio, il Sole 24 Ore, tre anni dopo la conferenza di Londra ha titolato così: «Bce, era il 26 luglio 2012: un giorno che cambiò il corso degli eventi. Così nacque il Whatever it takes»; Repubblica fa eco: «Draghi, il Whatever it takes compie tre anni». L’onda lunga della politica della Bce è confermata da un articolo del Sole 24 Ore del 26 luglio 2017 (ancora in cerimoniosa ricorrenza con Londra 2012) intitolato «Il ’whatever it takes’ di Draghi? Vale cinquemila miliardi per le Borse e i bond europei».

Ma è lo stesso Draghi, ormai da ex banchiere centrale europeo, a richiamare ai nostri giorni il messaggio politico-economico di fondo che è stato rappresentato dal motto Whatever it takes, quando, prima sul Financial Times e poi variamente ripreso dai giornali, ragiona in questo modo sulle politiche di emergenza e di prospettive per far fronte alla crisi in piena pandemia: «Le banche devono rapidamente prestare fondi a costo zero alle aziende preparate a salvare posti di lavoro. Poiché in tal modo esse diventano veicoli di politica pubblica, il capitale di cui necessitano per eseguire questo compito deve essere fornito dallo Stato sotto forma di garanzie pubbliche su tutti gli sconfinamenti aggiuntivi di conto o sui prestiti» (titolo de Il Foglio, 26 marzo 2020: «Whatever it takes contro il Covid. Draghi rilancia»).

Per contenere l’entusiasmo, taluni sprovveduti e interessati commentatori hanno tirato fuori il fantasma di Mario Monti, evocando le lacrime e sangue promesse e mantenute da quel governo tecnico. Niente di più sbagliato, Draghi non è un grande professore di economia, non ha rivestito cariche politiche nazionali o europee né, sul piano professionale, manifesta la dotta ma algida alterigia dell’ex Commissario europeo alla concorrenza che, pur degno di stima, non ha mai incontrato il sentimento profondo degli italiani.

Tanto meno nelle urne in cui incautamente si propose. È la leadership, bellezza! Quella che non si insegna e non si impara se non in minima parte, ma che emana da alcuni uomini o donne e da altri no. Secondo il metro berlusconiano del grado di fiducia da riporre nel venditore di un’auto usata che ha misurato personaggi come Matteo Renzi, Carlo Calenda, Nicola Zingaretti, lo stesso Uomo di Arcore e molti altri (fuori gara gli esponenti della Lega) Draghi è abbondantemente oversize e si vede.

Non c’è dunque da stupirsi che una tale ombra agiti le notte inquiete di Giuseppe Conte mentre nella sua aia (l’Aia del Conte è la rozza traduzione italiana di Gravenhage, abbreviata in Den Haag, capitale dell’Olanda, come apprese a suo spese chi scrive, avendo ignorato quaranta anni fa quell’ uscita autostradale e finendo quasi ad Amburgo, su una volenterosa R4) si avvertono i primi sintomi di un’ansia che sarà presto incontrollabile.

Se esiste un motivo per scongiurare la riduzione del numero dei parlamentari e comunque per resistere sino al semestre bianco e alla conseguente impossibilità di sciogliere il Parlamento, esso coincide con la concreta possibilità di portare Mario Draghi al Quirinale, quale insostituibile sponda istituzionale da opporre all’eventuale inondazione da parte delle destre, dove in atto è ristretta finora solo a Forza Italia la possibile convergenza con i progressisti su tale eventuale candidato.

Shakespiriano a tutto tondo, dunque, il dilemma amletico di Giuseppe Conte, stretto tra l’ombra di Banquo che lo attende seduta sulla sponda del fiume e la saggezza di Prospero, da cui potremmo aspettarci un saggio ma discreto e convincente consiglio all’avvocato del popolo di patteggiare la condanna, come Shylock il mercante di Venezia, facendo sì che siano altri, per ciò che resta della lunga notte italiana e senza impegno per il futuro, a sedere a Palazzo Chigi, al tempo di questa XVIII Legislatura che difficilmente dimenticheremo. Un finale che al Bardo non sarebbe dispiaciuto.