Almeno ha il merito di stare al passo con i tempi. Il britannico Women Prize for Fiction, ha lanciato l’iniziativa “Reclaim Her Name”, un modo per festeggiare i suoi 25 anni e, al tempo stesso, ridare luce alle grandi scrittrici del passato.
Il progetto consiste nel ripubblicare 25 opere scritte da donne del passato che, per varie ragioni, avevano scelto di darle alle stampe utilizzando uno pseudonimo maschile. Un’idea che mira a «restituire alle donne il credito che meritano».
Giusto e lodevole. Ma, come fa notare questo articolo del Times Literary Supplement, forse anche un po’ superficiale. Quando ci si addentra nel mondo degli pseudonimi (o in certi casi eteronimi) le questioni diventano complicate: si va a toccare specifiche situazioni biografiche, oppure scelte stilistiche, di personalità pubblica e privata e, a volte anche di identificazione di genere. Il rischio di fare di tutta l’erba il solito fascio è molto alto.
Si prenda il caso di George Eliot. L’autrice di “Middlemarch” avrebbe approvato l’idea di vedere le sue opere pubblicate sotto il nome di Mary Ann Evans, come fa il progetto del Women Prize? Secondo loro sì, visto che «fu obbligata a usare un nome maschile».
Non proprio, in realtà. George Elio era il nome scelto dall’autrice per la sua persona pubblica. Nel 1871 (quando uscì il suo libro più celebre) tutti conoscevano la vera identità dell’autore del libro e, soprattutto in quegli anni il nome corretto era Marian Evan Lewes, in quanto sposata con Goerge Henry Lewes. “Mary Ann” non fu utilizzato fino al 1880, quando poco prima di morire scelse di usare “Mary Ann Cross” quando si sposò con John Walter Cross.
Con quale diritto, insomma, è stato scelto un nome anziché l’altro? E siamo sicuri che la stessa Mary Ann (o Annes) avrebbe approvato?
Il caso di Vernon Lee è ancora più inquietante: la scrittrice, omosessuale e femminista, aveva scelto di liberarsi del proprio nome, Violet Paget, con cui viene ripubblicato ora il suo romanzo “The Phantom Lover”, in tutta autonomia.
Più che un omaggio, sembra la dimostrazione di una profonda incomprensione nei confronti di un’autrice che si vuole recuperare.
La scrittrice francese del XIX secolo, nota come Amantine Lucile Aurore Dupin, non solo scelse di usare J. Sand – poi G. Sand e infine George Sand – per firmare i suoi romanzi (popolarissimi, veri e propri bestseller), ma era solita girare indossando abiti maschili e fumando il sigaro.
Non era l’unica: all’epoca era necessario chiedere un permesso per farlo, che veniva concesso per ragioni di salute, ricreative (ad esempio andare a cavallo) o lavorative. Alcune lo facevano per protesta. Lei no, o quasi: era una scelta più pratica. Gli abiti da uomo erano più economici, più comodi e le consentivano di girare per la città con più libertà e frequentare posti considerati solo maschili (come i caffè).
Tutti questi aspetti concorrevano a creare il personaggio George Sand: tutti i suoi lettori sapevano che era una donna e ne conoscevano l’identità. «George Sand è un’idea», disse Victor Hugo al suo funerale, stabilendo di non potersi esprimere sul genere della scrittrice. Il Women Prize for Fiction, invece, non le usa questa delicatezza.
Ci sono anche alcune invenzioni vere e proprie, come quella di George Egerton, autrice di “Keynotes”. Si chiamava Mary Chavelita Dunne, ma nella pubblicazione restituta si usa il nome Mary Bright.
Perché mai? Lo pseudonimo fu una sua scelta precisa (voleva omaggiare la madre, che si chiamava Isabel George Bynon, e il secondo marito, Egerton Tertius Clairmonte). Ma soprattutto, Mary Bright (nome del suo terzo marito) non è mai esistito e, di sicuro, non è quello con cui avrebbe firmato quel libro.
E allora, nonostante le intenzioni fossero buone, il risultato è incerto. Scegliere uno pseudonimo non implica, in generale, una costrizione. Nemmeno nel caso di una donna che vuole fingere di essere un uomo.
Per questo motivo operazioni di “correzione” come questa, forse, sono sbagliate a prescindere (le rivendicazioni sono tardive, le compensazioni astoriche). O forse, andrebbero fatte con molta più delicatezza, dal momento che ci si sta sostituendo a persone scomparse da decenni, se non da secoli, e si pretende di parlare a loro nome.