Sono una delle poche cose che mettono d’accordo tutti in questo Paese diviso linguisticamente, geograficamente, politicamente, e secondo certi aspetti, anche culturalmente. I luoghi in cui si vendono si trovano un po’ ovunque – Vallonia o Fiandre poco importa – e alcuni di questi rappresentano vere e proprie istituzioni non solo tra gli autoctoni, ma anche tra chi in Belgio ha deciso di trasferircisi. A onor del vero, anche in questo caso non si può fare a meno di schierarsi.
Impossibile non eleggere la friterie (o frituur in fiammingo) in cui trovare le proprie frites (o friten) del cuore. Solo a Bruxelles, la domanda – Dove prendiamo le frites? A Flagey o Jourdan? – può mandare amicizie e storie d’amore letteralmente in frantumi. Se riuscite a mantenere il rapporto intatto però, non c’è cosa più bella di comprarsele e andarsele a mangiare in un bar o in un pub nei paraggi, che magnanimamente vi farà consumarle a uno dei suoi tavolini, a patto che prendiate da bere (preferibilmente una birra, belga, ça va sans dire).
O ancora, il giudizio può cadere sulla salsa con cui accompagnarle. Quasi certamente verrete guardati male se deciderete di optare per un banalissimo ketchup – a questo punto meglio senza niente, con giusto un po’ di sale. Mentre è d’obbligo provarle almeno una volta con l’abbinamento più tradizionale: la salsa Andalouse, a base di maionese, pomodori, peperoni e spezie.
Sul perché un condimento tipico belga abbia il nome di una regione della Spagna forse è meglio non soffermarsi: chi abita in Belgio dopo un po’ impara che su tanti, troppi argomenti, provare a trovare delle risposte è quasi inutile. Il numero di salse con cui potersi gustare le frites può allargarsi comunque all’infinito: leggenda narra che non basti una vita intera per provale tutte.
Impossibile poi dimenticare le moules-frites, letteralmente cozze e patatine, da cui si viene bombardati passeggiando per le vie più turistiche del centro di Bruxelles (ma che è sicuramente meglio provare spostandosi sulle coste delle Fiandre). In generale però, le frites sono un vero e proprio strumento di pace e di unità, la cui ricetta, che ha come punto di forza la doppia frittura nello strutto, è stata addirittura inserita nel patrimonio immateriale del Paese (nel 2014 dalle Fiandre, e nel 2017 dalla Vallonia).
Solo nel luglio scorso la foto della premier belga ad interim Sophie Wilmès e del primo ministro belga Xavier Bettel intenti a mangiare le frites (con salsa andalouse per lei, samurai per lui) davanti alla friterie Maison Antoine di Place Jourdan al termine del Consiglio Europeo, ha fatto in poche ore il giro d’Europa. Wilmès aveva voluto rassicurare così il proprio corrispettivo lussemburghese, preoccupato dal fatto che il Granducato fosse stato dichiarato zona arancione a causa dell’elevato numero di casi positivi al coronavirus, emersi però – e questo è un particolare da non tralasciare – solo dopo aver sottoposto la popolazione a una vera e propria operazione di tamponi gratuiti a tappeto.
Durante il lockdown invece, è diventato famoso – e virale – l’accorato appello alla popolazione affinché venissero consumate più frites (due volte a settimana per la precisione). Al grido di “Sauve les patates, mange de frites!” si voleva così evitare di mandare al macero ben 750 mila tonnellate di patate che sarebbero altrimenti rimaste invendute.
Questa volta invece le frites sono state invocate per sensibilizzare le autorità politiche belghe sui pericoli del cambiamento climatico. Lo scorso venerdì 18 settembre, vari attivisti del clima hanno offerto proprio delle frites a Egbert Lachaert e Corner Rousseau (leader rispettivamente del partito liberale Open VLD, lo stesso di Guy Verhofstadt, e del partito socialista Sp.a – entrambi fiamminghi). I due sono stati infatti incaricati dal re Filippo di portare a termine la missione esplorativa che poi dovrebbe condurre – e il condizionale è d’obbligo – a una coalizione di governo (talmente complicata da realizzare che ieri i due pre-formatori avevano addirittura presentato le proprie dimissioni al re, che però le ha rifiutate).
Secondo un rapporto della Commissione Nazionale sul Clima, il riscaldamento globale avrebbe pesanti ripercussioni socio-economiche nel Paese anche per quanto riguarda due tra i suoi prodotti più iconici. Le frites, e la birra. Lo studio evidenzia come i sempre più frequenti periodi di siccità abbiano conseguenze particolarmente negative sulla coltivazione dei tuberi.
Secondo i dati raccolti nel 2018 la carenza di patate provocate dalla siccità avrebbe fatto aumentare i prezzi ben del 23%. Anche i processi di lavorazione e conservazione non vengono risparmiati. Per il primo servono enormi quantità d’acqua, sempre più difficilmente reperibili considerando gli effetti del cambiamento climatico sulla disponibilità di risorse d’acqua dolce; e il raffreddamento delle temperature necessario per la conservazione richiede un fabbisogno energetico sempre più alto, considerati i gradi in aumento praticamente ogni anno.
Inoltre c’è da considerare l’impatto sulla birra. Il Belgio importa orzo e luppolo in grandi quantità, e gli effetti della siccità sulla loro coltivazione potrebbero provocare un calo della produzione di birra addirittura del 40% entro il 2050. Considerando che l’88% della popolazione belga mangia patatine fritte una volta a settimana, e che il Belgio è uno dei suoi maggiori esportatori verso oltre 150 paesi, diventa chiaro come l’iniziativa rinominata emblematicamente “Climate government now, or no fries on the menu”, non sia soltanto una trovata per far parlare di sé.
I rischi a cui si potrebbe andare incontro non hanno effetti “solo” sullo stile di vita di chi abita in Belgio e sulle tradizioni del Paese, ma hanno pesanti conseguenze economiche negative in uno dei suoi settori chiave (anzi due, considerando anche la birra), che il futuro governo belga – semmai si riuscirà a formare – non può permettersi di sottovalutare.
Sebbene il Belgio sia uno dei Paesi più attenti al tema (oltre la metà dei 19 comuni in cui è suddivisa Bruxelles è governata da una giunta verde, e i partiti ecologisti sia fiammighi che valloni hanno visto crescere esponenzialmente i consensi alle ultime elezioni regionali del 2019), gli attivisti temono che l’emergenza coronavirus possa far cadere in secondo piano l’emergenza climatica. Puntare ai pericoli del riscaldamento globale per le patatine è l’unica alternativa per far sì che non avvenga. Insomma, There is no planet B. E non c’è nemmeno il Belgio senza le frites.