Una testimonianza, una confessione, una rilettura degli eventi fatta dal punto di vista di un uomo pentito. “Disloyal”, memoir di Michael Cohen, ex avvocato personale di Donald Trump per più di dieci anni, è appena uscito ed è già in cima alle vendite.
I libri sul presidente americano vanno come il pane. Soprattutto quelli che forniscono i dettagli più intimi e gli aneddoti privati (già anticipati con generosità dalla stampa). E quelli di Cohen, ex uomo di fiducia e dipendente, spicciafaccende, collaboratore e complice – ma soprattutto ex ammiratore – sono tra i più succulenti.
«Trump è un enigma», dichiara di fronte alla Commissione di controllo della pagina, e lo ribadisce nelle prime pagine. Ma risolverlo non sembra difficile: è un uomo spietato, duro, interessato solo al proprio guadagno, vanesio, disonesto a ogni livello. Un bugiardo seriale, peggio: è una persona disinteressata alla verità dei fatti – e Cohen sembra dire che, a certi livelli e per certe persone, anche questo limite sembra superabile. Ma più di ogni cosa è «sleale», “disloyal”, appunto, parola che dà il titolo e ricorre per tutto il volume.
È importante, del resto. Serve a definire le origini di Cohen, cresciuto in un quartiere dominato da gang paramafiose centramericane dove, sotto la forma dell’omertà, rappresenta un valore. E serve a definire l’atteggiamento mentale del clan Trump, dove non è concessa discussione, non c’è dialogo, né linea differente dalle idee e iniziative del capo (nel libro Trump diventa, già dal secondo capitolo, “the Boss”). Il presidente americano, dice Cohen, «non ha amici», ma solo ammiratori. Alla sua corte di sicofanti, sia nell’epoca pre-politica che in quella successiva, le persone lo circondano perché cercano «di ottenere, attraverso di lui, una piccola fetta di denaro e potere».
Ma non solo: ad alimentare l’enigma Trump è anche la curiosa fascinazione per il personaggio, un vero e proprio «incantesimo» di cui Cohen confessa di essere caduto vittima quasi subito.
«Trump incarnava un insieme di ambizioni, desideri e risentimenti per innumerevoli persone, me compreso». Cohen era anche predisposto: aveva letto (e riletto) “The Art of the Deal”, seguiva, «come tutti i newyochesi» le vicende del magnate raccontate sui tabloid e in televisione, era divertito dalla sua personalità esuberante e di successo.
Ma c’era di più: a tenerlo legato a Trump, fin dall’inizio «è qualcosa di più profondo» rispetto al potere e al denaro, anche se erano importanti: «era qualcosa di fisico, di emotivo, non spirituale forse; ma c’era una mancanza profonda e un vuoto che Trump riempiva per me». Sono poche righe, ma possono essere una radiografia, attualissima, del suo elettorato: «Vicino a lui mi sentivo vivo, eccitato, come se possedesse l’unica e urgente verità, la possibilità per la mia salvezza e il mio successo».
Che i rapporti, anche elettorali, siano una questione di proiezione psicologica non è cosa nuova. Ma Cohen, nelle attuali vesti di pentito, riesce forse più di altri finora a condurre «al vero, vero, vero Trump». Cioè alla sua visione (arida) del mondo, dove conta solo vincere e «con qualsiasi mezzo», ma anche al suo disprezzo per la verità, alla totale slealtà nei confronti di collaboratori, alla capacità di sapersi sbarazzare degli altri.
Gli aneddoti sono già noti: il disprezzo per Nelson Mandela («Non è un leader», avrebbe detto il presidente americano), la furia per l’elezione di Barack Obama, con conseguente assunzione di un “Faux-Bama” da maltrattare e licenziare (c’è anche la fotografia), il razzismo chiaro ed evidente nei confronti dei neri, «tranne quelli di successo».
Ci sono le infedeltà coniugali (Melania le conosceva ma fingeva di non sapere nulla, quando Cohen ne parlava per smentirle «era una scena di teatro kabuki»), con tutto il meccanismo dei ricatti che ne derivava, fino ad arrivare ello scandalo di Stormy Daniels, per il quale Cohen si era già dichiarato colpevole perché il pagamento alla ex pornostar era avvenuto in violazione delle regole della campagna elettorale. Anche se, certo, per lui il libro è anche un tentativo di ribadire la propria innocenza.
E poi c’è la Russia. Cohen minimizza il coinvolgimento del Cremlino nelle elezioni del 2016. Più che altro, sottolinea i ripetuti tentativi della campagna di Trump di ottenere aiuti da Mosca, nell’ottica del comune nemico. «Più che una collusione è stato una confluenza di interessi condivisi nel colpire Hillary Clinton», a dispetto delle millanterie di Steve Bannon e dei presunti collegamenti diretti con Putin che, dice Cohen, erano più fittizi che veri. Servivano più che altro, di fronte alla quasi sicura sconfitta, per tenere aperte le vie finanziamenti e soldi.
Sarà andata davvero così? È lecito dubitarne, visto che anche Cohen ne sarebbe implicato. Ma su un punto ha senz’altro ragione: se esiste un uomo che Trump ammira più di se stesso, quello è proprio Vladimir Putin.
Il presidente russo (e lo dice lo stesso Trump) «è l’uomo più ricco del mondo: controlla il 25% dell’economia della Russia». Ma non solo: «è riuscito a impossessarsi di un Paese e governarlo come se fosse una azienda personale». È questo il livello cui il presidente americano aspira ancora di arrivare? A giudicare da ciò che ha fatto e detto finora, è molto probabile. E preoccupante.