Sono stati 942 mila gli italiani che dal 2008 si sono trasferiti all’estero, 126 mila solo nel 2019, con un’ulteriore crescita, di ben l’8,1%, rispetto all’anno precedente. Da tempo i media non rinunciano a sottolineare questo trend in aumento, quale ennesimo segno di declino del Belpaese.
Vi è naturalmente una buona dose di allarmismo sul tema, e ovviamente di retorica sui “cervelli in fuga”, come accade inevitabile in Italia. Spesso si guardano i numeri sbagliati, o comunque, non i più rappresentativi. Non si tratta solo del fatto che in altri Paesi come Francia e Germania coloro che emigrano sono decisamente in numero superiore al nostro Paese, rispettivamente: 287 e 207mila nel 2018, il che dimostra che in tempi di globalizzazione spostarsi dovrebbe essere normale, ma dei numeri di coloro che invece in Italia ci vengono: che sono bassi, troppo bassi.
Bassa è l’attrattività dell’Italia per chi ha magari già una professione Ma in particolar modo a essere bassi sono i numeri di coloro che da noi vengono a studiare all’università, a specializzarsi, magari rimanendo nel Paese. Questo forse è il vero e proprio dramma. Solo il 5,6% degli iscritti all’università viene dall’estero. Meno della media europea, il 9%, molto meno che nel Regno Unito, dove sono il 18,3%, e del resto, le Isole Britanniche sono tra le maggiori destinazioni al mondo per chi vuole studiare ai massimi livelli.
Meno anche che in Paesi che certo non presentano il vantaggio di una lingua universale come l’inglese, ovvero la Germania, dove sono solo il 10% gli studenti che vengono da fuori. Ricordiamoci, tra l’altro, che coloro che sono iscritti all’università sono già in partenza un numero inferiore che altrove: nel 2018 gli iscritti nei nostri atenei erano 1,9 milioni, contro i 2,05 della Spagna, che ha meno abitanti, i 2,6 della Francia, i 2,5 del Regno Unito e i 3,1 della Germania.
La Spagna è l’unico grande Paese con dati ancora più negativi dei nostri. E negli ultimi anni poco si è mosso in queste statistiche. La distanza tra Italia e resto d’Europa diventa ancora più larga se parliamo di laurea specialistica, e vale a dire del biennio finale della preparazione universitaria. In questo caso a fronte di un 13,6% medio di iscritti stranieri nell’Unione europea, il 34,6% sono inglesi, il 15,6% tedeschi, il 12,1% francesi, mentre nel nostro Paese sono solo il 5,8% coloro che studiano e provengono da altri lidi. A fare peggio solo Polonia, Croazia e Grecia.
Risaliamo posizioni, invece, se parliamo di dottorati, con un 16,1% di studenti stranieri. Ma peccato che a svolgere il più alto titolo di studio universitario nel nostro Paese, solo due anni erano 28mila giovani, contro gli 85mila della Spagna, i 66mila della Francia, e addirittura i 200mila del Regno Unito.
La provenienza degli studenti stranieri dice molto. I grandi Paesi che ne hanno di più, hanno una presa evidente su una parte del mondo specifica: solitamente quella con cui hanno rapporti antichi, di origine coloniale. Circa metà degli studenti che va a studiare in Francia viene dall’Africa, metà di quelli che si recano nel Regno Unito dall’Asia, in particolare dal Subcontinente Indiano.
Si tratta delle élite delle aree del mondo a maggiore crescita economica, che, anche qualora non rimanessero nel Paese in cui hanno studiato, tornerebbero nel proprio mantenendo legami con quello europeo in cui sono formati, un aggancio importantissimo da sempre per l’economia e la politica estera di Francia e Regno Unito. In Italia gli studenti stranieri invece approdano soprattutto dal resto d’Europa, la presa su quelli extracomunitari è particolarmente bassa.
Solo il 74,4% dei laureati italiani con meno di 35 anni è occupato, contro il 94,6% della Germania, l’83,4% della Spagna, l’86,8% della Francia. E se in questo siamo penultimi, davanti alla Grecia, diveniamo ultimi per quanto riguarda i giovani extraeuropei con un titolo universitario tra cui solo poco più della metà ha un lavoro, contro il 70,4% della media europea.
Perché quindi venire a studiare in Italia se le nostre università non compaiono mai ai primi posti nei ranking mondiali, e se volendo rimanere poi nel nostro Paese si ha meno possibilità di impiego che altrove?
Questi dati, non dovrebbero interessare solo qualche nerd dei numeri e delle statistiche: vi è infatti un impatto sul futuro dell’economia italiana, e persino coloro che sono convinti che sia in atto un’” invasione”, dovrebbero avere interesse a spingere verso un’immigrazione di qualità, fatta di laureandi e laureati.
Ma l’impressione è che l’università si sia collocata addirittura dietro la scuola, che pure non ha certo avuto la prima fila, fra le priorità della ripartenza del Paese dopo la fase di maggiore emergenza della pandemia. Difficile meravigliarsi allora di certe statistiche