Dicono che l’età alla quale diventi famoso sia quella alla quale si arresta la tua crescita psicologica. Il che dovrebbe renderti un individuo più frequentabile se hai avuto la carriera di Ligabue che se hai avuto quella di Michael Jackson.
Ma forse la fama locale, quella d’un posticino senza rilevanza globale quale l’Italia, non è abbastanza per appiattirti la curva d’apprendimento. Forse lo star system di serie B che abbiamo qui è una fortuna: almeno le nostre celebrità qualcosa imparano dai loro errori.
La politica, per esempio.
Che nessuna dichiarazione d’attore o cantante o calciatore sia in grado di spostare un voto (l’ultimo segno rimasto della complessiva sanità mentale del resto della popolazione) è un fatto che gli italiani famosi hanno compreso da un pezzo. In genere c’è un primo giro in cui s’illudono di poter far pesare il loro carisma (o anche solo la loro notorietà), ma al secondo imparano e pensano: ma chi me lo fa fare (altro segno di sanità mentale).
Nanni Moretti oggi si guarda bene dal fare girotondi. Il Lorenzo Jovanotti cinquantaquattrenne non va da chi governa a chiedergli di cancellare il debito del terzo mondo come faceva trentaquattrenne. Persino Claudio Santamaria ha capito che non è il caso di salire sui palchi dei comizi.
Gli americani ci arrivano sempre dopo. Non è solo in Trump, che si rivelano una copia tardiva delle dinamiche politiche italiane. È anche nella perpetua convinzione che parte del tuo lavoro di celebrità sia la militanza.
Ieri sera su Showtime è cominciato The Comey Rule (in Italia arriva su Sky tra un paio di settimane). È una serie tratta dall’autobiografia di James Comey, che a capo dell’Fbi fu costretto a indagare sulle email di Hillary.
Jeff Daniels si è collegato con Stephen Colbert, che conduce il programma che fu di David Letterman sulla Cbs (Cbs e Showtime fanno parte dello stesso gruppo editoriale), per promuovere la miniserie. Colbert gli ha chiesto della data di messinonda, e Daniels ha raccontato che si erano precipitati a girarla perché potesse essere trasmessa a fine estate, e poi un qualche innominato delle alte sfere ha deciso dovesse andare dopo le elezioni, e quando gliel’hanno detto lui ha detto sappiate che se non va prima delle elezioni io non faccio promozione, e allora lo mandano in onda adesso.
Non importa se sia vero (gli obblighi promozionali degli attori stanno scritti nei loro contratti, ma posso persino credere che un attore americano sia disposto a pagare una penale pur di far sapere quant’è indispettito di non partecipare alla campagna elettorale contro Trump). Ed è lodevole che sul finale della risposta Daniels abbia un sussulto di senso del ridicolo e dica a Colbert che mica è perché vuole influenzare le elezioni, eh: è che vuole che la serie faccia parte del dibattito collettivo. Che sia cogente, direbbero gli intellettuali italiani.
Fa comunque ridere che una produzione in onda su Showtime – canale a pagamento il cui titolo più famoso, la serie Billions, ha nella scorsa stagione totalizzato una media di meno di ottocentomila spettatori – venga considerata in grado di spostare gli equilibri elettorali d’un paese con trecento milioni e spicci d’abitanti.
Anche se meno ridere dei tweet con cui varie personalità hollywoodiane ieri puntesclamativavano su Twitter la pericolosità della quasi omonima di Comey nominata da Trump alla Corte Suprema; Amy Coney Barrett, la cui esistenza – è una donna ma è di destra! – mette in grandissima crisi il pensiero binario della sinistra cancellettista.
Con quella tendenza a drammatizzare e a dipingere come la fine del mondo ogni vittoria della destra che accomuna sinistra italiana e americana (e le rende parimenti poco credibili: se per otto anni mi dici che George W. Bush è la fine del mondo, e poi non solo il mondo non finisce, ma vent’anni dopo lo rivaluti come padre della patria, perché non devo pensare che con Trump tu stia praticando lo stesso «al lupo»?), ieri ci raccontavano un futuro di donne che muoiono dissanguate abortendo clandestinamente nei sottoscala, ora che Amy alla Corte Suprema eliminerà l’obbligo federale di permettere l’aborto, lasciando la decisione agli Stati.
Piace molto, ai commentatori famosi, dire che ci dev’essere una separazione tra Stato e Chiesa (ovvero: che il cattolicesimo di ACB non deve interferire col suo legiferare), e già questo è buffo in un paese che ha Dio menzionato sui dollari, e il cui giuramento di fedeltà alla bandiera dice «one nation under God».
Ma ancora più buffa è l’idea che chi crede che il sesso debba essere riproduttivo e la vita cominci quando lo spermatozoo e l’ovulo sono ancora alle presentazioni possa legiferare non tenendo conto di questa convinzione.
È la stessa comicità involontaria di chi, nel dibattito (anche italiano) sull’aborto, dice che gli uomini non devono permettersi di parlarne, non avendo un utero. Sorvolando sul fatto che con questo criterio non dovrebbero poterne parlare le sterili, le donne in menopausa, e forse neanche chi s’è messa la spirale, c’è un dettaglio non marginale. Se pensi che abortire sia uccidere bambini, non importa molto che tu sia portatore d’utero o no. È come dire che se un terrorista irrompe in un asilo in cui non si trovano i miei figli, e provo a fermarlo prima che li prenda a mitragliate, vado criticata per non essermi fatta i fatti miei.
L’obiezione sensata sarebbe: se pensi che la vita inizi al concepimento e accoppiarsi tra uomini sia contronatura, sei scemo, e se sei scemo bisogna impedirti di partecipare alla vita politica.
Ma l’obiezione sensata non la fa nessuno, perché abbiamo tutti una nonna che dice il rosario, e mica ci mettiamo a dire che essere religiosi è una forma di ritardo mentale. Quindi diciamo che il Papa è un grande leader spirituale, e lodiamo le volte in cui dice cose clementi sui gay o sull’aborto. Ci piace molto il capo della chiesa cattolica, quando dice qualcosa che non somiglia alla sua dottrina.
Attendo con grande smania che il dibattito su Amy arrivi qui. Sarà la solita curva di tifoserie, cattoliche che la difendono e sinistra che la ritiene la fine del mondo. Ma sarà bellissimo assistere all’impermalimento delle donne di sinistra, che con un figlio o due hanno frignato per mesi sull’impossibilità di gestire un lavoro e la didattica a distanza, e ora si ritrovano una con sette figli – uno con la sindrome di Down, due adottati da Haiti dopo il terremoto – che trova pure il tempo di fare il giudice della Corte Suprema. Come si permette, questa stronza. L’avrà raccomandata quello che moltiplicava i pani, i pesci, e le ore di lavoro.