Calexit e altre secessioni
«È tempo di creare una nuova nazione: California, Oregon, Stato di Washington, Minnesota, New York, Vermont… Gli stati che restano possono chiamare il loro paese Troglodytia». Post come questi, nei giorni della nomina di una giudice di ultradestra e di Donald Trump ringalluzzito, abbondano come e più di quattro anni fa. Quando Trump fu eletto quasi a sorpresa. E in California e Oregon, i progressisti traumatizzati iniziarono a fantasticare su una secessione della West Coast. Una Calexit o Westcoastexit, in cui, in caso, includere gli Stati democratici della costa est e del Midwest.
Ne parlano molto i trumpiani, per segnalare la differenza tra questi Stati debosciati e la vera America. Ieri Breitbart News citava con compiacimento le simulazioni di un gruppo di bramini democratici, il Transition Integrity Project. In una l’ex clintoniano John Podesta, che impersonava Joe Biden, non concedeva dopo settimane di schede contestate. Denunciava brogli e soppressione del voto, convinceva i governatori di Michigan e Wisconsin a nominare anche loro nuovi grandi elettori, pro Biden. Intanto California, Oregon e Washington minacciavano la secessione; la Camera proclamava presidente Biden, il Senato restava con Trump, e l’America, forse, si spaccava (col solito dubbio: cosa fa l’esercito? Perché ora va così).
Però. La Calexit e dintorni, si diceva, sembra venire indicata dai repubblicani, incoraggiati dall’amico Vladimir Putin. Il più vispo ma torbido gruppo secessionista californiano, YesCalifornia, è sostenuto dal Movimento anti-globalizzazione di Russia. Il fondatore di YesCalifornia Louis Marinelli va ai loro convegni (pare che ora viva a Mosca, una delle città meno californiane che ci siano).
Ancora però. La divisione è vera. La semplifica all’estremo un commento recente e molto condiviso uscito sul Philadelphia Inquirer: «Non vuoi andare da Starbucks senza il conforto del tuo fucile semiautomatico? Abbiamo un Paese per te. Vuoi una società in cui i tuoi figli possano andare a scuola senza zainetto antiproiettile? Potremmo avere un Paese per te, un altro. A che serve vivere nel “greatest country in the world” se non piace più a nessuno?».
Cattiverie in Pennsylvania
Nella spazzatura di un ufficio elettorale della Pennsylvania sono state trovate nove schede (sette per Trump), e non sono cose fatte bene. Trump ne parla da giorni, i repubblicani lo ripetono per confermare che il voto per posta non è sicuro, l’Attorney General trumpianissimo Bill Barr ha emesso comunicati ufficiali. I funzionari locali dicono che è colpa di un subappaltatore ora cacciato via, ma il problema resta.
L’esercito di Trump
The Army for Trump, “l’esercito di Trump” sembra il nome di un account di troll su Twitter, ma è il suo sito elettorale. E potrebbe diventare una milizia informale che bullizza gli elettori fuori dai seggi e scende in strada armata se l’elezione è contestata. Gli incoraggiamenti non sono velati: si invitano i sostenitori ad «arruolarsi», a «combattere in prima linea», si vende merchandising mimetico.
A chi si iscrive alla newsletter arrivano email con frasi come «The President wants YOU» (stile «Uncle Sam Wants You», ndr) e vuole vedere te e ogni altro membro dell’esclusivo (inevitabile aggettivo da palazzinaro bling-bling, ndr) Esercito di Trump con addosso qualcosa con cui identificarsi. Per far sapere a tutti che siete la prima linea di difesa del Presidente quando ci sarà da combattere il Liberal MOB, insomma la teppa liberal (con sprezzo della pandemia, sul sito si invita a organizzare Maga Meetups; e a diventare Trump Team Leader nel proprio vicinato; intanto i volontari per Biden telefonano).
ACB e le suburbane
I trumpiani promuovono molto la giudice appena nominata alla Corte Suprema, Amy Coney Barrett. Ora vendono online magliette con la scritta “The Notorious ACB”; per gli ammiratori della Notorious RBG, Ruth Bader Ginsburg, è vilipendio. Ma cosi si rimescolano le carte e si cerca di creare entusiasmo femminile per la quarantenne ultrareazionaria.
Anche se, secondo i sondaggi, potrebbe non succedere: il 56 per cento delle intervistate si dichiara «meno intenzionata» a votare per Trump se sapesse che la nuova giudice vuole limitare il diritto di aborto, solo il 24 per cento sarebbe più motivata. I democratici sperano molto nelle donne suburbane che sono state al college e l’altra volta, come i mariti, hanno votato Trump.
ACB e le altre ancelle
I commentatori più brutali dicono che Coney Barrett, ragazza prodigio della destra giudiziaria, è stata preferita a un’altra giudice conservatrice, Barbara Lagoa, perché più giovane e carina. «Lagoa non andava bene a Trump perché non sembra una conduttrice di Fox News», pare. Intanto Margaret Atwood, ispirata dalla setta religiosa di cui Coney Barrett fa parte a scrivere The Handmaid’s Tale (Il racconto dell’ancella), ha condiviso un tweet in cui viene definita «preveggente» e ha commentato «sorry about that».
Le mammine di QAnon
Qualunque barlume di speranza suscitato dalla lettura dei sondaggi sulle suburbane si affievolisce alla lettura di una bella inchiesta di Mother Jones sulle pagine Facebook e chat di mamme. In cui si racconta che «in tutto il paese, le moderatrici di queste pagine – che hanno dai 10 mila ai 40 mila membri – segnalano un aumento incredibile di post» ispirati alle teorie deliranti di QAnon.
Parlano di congiure strampalate di politici liberal, celebrità e scienziati per controllare i cittadini e bere il sangue di bimbi rapiti. Alcune scrivono che il vaccino anti-Covid conterrà microchip creati da Bill Gates (come da video complottista Plandemic, uscito a maggio), che il virus è stato creato in laboratorio e viene «attivato» dalle mascherine. E che «i siti in cui smontano queste bufale sono di proprietà di Soros».
Secondo Seema Yasmin di Stanford, è colpa è di QAnon e dell’Amministrazione Trump, che non fornisce linee guida ed è, diciamo, contraddittoria; e permette a ciarlatani e no-vax di dire cose false e pericolose con autorevolezza. Le moderatrici intervistate dicono «queste pagine sono l’unica fonte di informazione per molte donne», e sono preoccupate (le repliche ai debunking sono in genere meme di QAnon o frasi come «niente di nuovo, i mainstream media continuano a proteggere i pedofili»).
Florida men
In Florida, ci informano conoscenti esasperati, non si può più accendere un’apparecchiatura elettronica (tv, radio, computer, telefono) senza essere aggrediti da spot elettorali. Ora andrà peggio. Michael Bloomberg, che forse è un sincero difensore della democrazia e forse non sopporta che un newyorkese molto meno ricco di lui -pure bancarottiere – rivinca la presidenza, ha annunciato che investirà altri 40 milioni in pubblicità pro Biden.
Il suo budget per far perdere la Florida a Trump sta raggiungendo i 150 milioni di dollari (ma ne ha spesi centinaia per prendere cinque-sei voti alle primarie, quindi non si sa). Intanto circa cinque milioni di schede postali sono arrivate agli elettori della Florida; e il senatore repubblicano pelato cattivissimo ex governatore Rick Scott ha proposto una norma per smettere di contarle dopo il 3 novembre.
Biden contro Ryan
Va bene, è un dibattito del 2012. Ma Biden stravinse contro Paul Ryan, giovane e preparato candidato alla vicepresidenza con Mitt Romney. Barack Obama in quella fase era depresso, attraversò la convention di Charlotte e il primo dibattito con l’aria di chi aveva preso benzodiazepine (fu accusato anche di questo, con più garbo di oggi).
Biden affrontò Ryan caricato a pallettoni, e «gli fece saltare i circuiti», secondo Tad Devine, ex direttore della campagna di Bernie Sanders: «Obama era stato penoso. Biden andò all’attacco, e, accidenti, era aggressivo nel modo giusto. Faceva a pezzi le affermazioni di Ryan, roteava gli occhi», ed evitava le sue classiche gaffes. A un certo punto, a una frase di Ryan che trovava davvero discutibile, esplose in un «Malarkey!», vecchia ed efficace espressione popolare per dire «baggianate», e il dibattito si risolse lì.
Per il dibattito di martedì sera (alle due di notte ora italiana), Biden si sta preparando coi collaboratori che lo hanno aiutato nel 2012. «Joe va tranquillo quando le aspettative sono basse, e passa in vantaggio», dicono dalla sua campagna, forse per confortare, con la promessa di un «Momento Malarkey», gli elettori più provati.
Si chiamano swing states perché oscillano
Biden conduce su Trump di molti punti in quasi tutti i sondaggi, ma come è noto non vuol dire: bisogna vincere gli Stati, e i voti di chi perde non contano. Negli swing states, stati in bilico o oscillanti, rischia più che mai, perché le legislature repubblicane, dove ci sono, metteranno in dubbio ogni voto; e perché anche Hillary Clinton lì era data in lieve vantaggio. Ieri Biden oscillava – nei sondaggi tra gli intenzionati a votare – tra il più 1 e il più 11 per cento in Arizona, tra il più 2 e il più 7 in Wisconsin, tra il più 4 e il più 11 in Pennsylvania, tra il più 6 e il meno 2 in Florida.
Per vincere ha bisogno di tutti gli Stati vinti da Clinton più l’Arizona e il secondo distretto del Nebraska (è complicato). Oppure di tutti gli stati vinti da Clinton più quelli che lei ha perso, Michigan, Wisconsin e Pennsylvania. Potrebbe succcedere: Trump ha perso il 9 per cento dei maschi bianchi non andati al college, che sono il suo zoccolo duro e i principali acquirenti dei cappelli Maga, Make America Great Again.
E sono il gruppo più numeroso negli Stati della Rust Belt persi per meno di un punto cadauno da Hillary (però in Pennsylvania ci sono le schede nella spazzatura; in Arizona c’è un candidato forte al Senato, Mark Kelly, ma Biden non attrae tanto gli elettori ispanici che lì sono decisivi; e in ogni sobborgo ci sono mammine convinte, più che da ACB, da QAnon; e si continua a non essere sicuri di quel che succederà, quasi tutti).