È in corso una campagna allarmistica che lascia intendere che con la vittoria del No cadrebbe il governo e c’è persino chi sostiene che verrebbe delegittimato il Parlamento, dato che – si sostiene – il voto popolare avrebbe sconfessato quello espresso dalle Camere a larghissima maggioranza. Tutto falso. Fumo negli occhi per spaventare chi ha a cuore in questo momento così difficile per il Paese la stabilità delle istituzioni. È terrorismo psicologico indice di paura di perdere, una deviazione dalla correttezza della campagna elettorale.
Infatti il referendum, indipendentemente dal risultato, non avrà conseguenze automatiche né sul Parlamento né sul governo. Il No non è una mina sulla legislatura.
E questo perché il referendum costituzionale serve esattamente a dare l’ultima parola ai cittadini, veri arbitri nel caso di una richiesta di verifica da parte del Parlamento: è questo, o meglio una sua parte, che ha chiesto al popolo di pronunciarsi, affidando a esso la facoltà di decidere su una legge (certo, approvata dalle Camere, altrimenti non sarebbe una legge): nessuna delegittimazione dunque.
Ci dice il professor Francesco Clementi: «No, non delegittimerebbe il Parlamento in sé. Ma delegittimerebbe ogni intervento di riforma costituzionale, in quanto sarebbero state bocciate, nell’arco di quindici anni, tanto le proposte di referendum contenenti “disegni” quanto quelle contenenti un singolo “tassello”, lasciando quindi inevasa la domanda – e soprattutto il problema – di come riformare il sistema costituzionale italiano».
Ma questo è colpa di una classe politica che per varie ragioni non è mai stata in grado di prospettare una riforma non solo organica ma condivisa. E il popolo sin qui ha respinto progetti organici ma non condivisi (Renzi e prima ancora Berlusconi) o, se vincesse il No, progetti condivisi ma non organici.
Una vittoria del No non determinerebbe inoltre la caduta del governo perché quest’ultimo non è per nulla “attore” di questa partita. Non esiste una posizione del governo in quanto tale. Altro discorso ovviamente riguarda i riflessi politici del voto, poiché è ovvio che le ricadute politiche di una affermazione del No implicherebbero certo un ridimensionamento dei populisti e imporrebbero una qualche discussione nel Pd: ma sono dati politici, appunto, non istituzionali.
È chiaro che di fronte alla inaspettata risalita dei No Nicola Zingaretti e ancor di più Pier Luigi Bersani agitino lo spettro di una catastrofe politica, premessa secondo loro di un ritorno della destra al governo.
Ma a parte il fatto che la vittoria del No significherebbe la sconfitta anche e soprattutto di Salvini&Meloni che cavalcano seppure blandamente il Sì anti-casta (e lo fanno blandamente perché sentono che il Paese sta reagendo alla grancassa dell’antipolitica), sorprendono certi ragionamenti dei leader Pd e LeU.
Zingaretti sta adoperando un po’ confusamente un vecchio mantra della sinistra: non lasciamo questa bandiera al M5s, cioè contrastiamo la vittoria dei grillini assumendone i contenuti, come se questi divenissero buoni solo perché fatti propri dal Nazareno. Ed è un po’ come immaginare di sedersi al tavolo dei vincitori dopo qualche migliaio di morti.
Quanto a Bersani (da Floris messo in difficoltà dal giovane Mattia Santori, che ha una quarantina d’anni di esperienza politica in meno) le ragioni del suo Sì sono legate alla sopravvivenza di Conte (ma abbiamo visto che non è in discussione), che è condizione per la sopravvivenza del suo gruppo, e all’idea di fare un nuovo centrosinistra con Di Maio. Poco gli importa che il M5s continui a definirsi né di destra né di sinistra e che nella pratica si stia dimostrando inaffidabile anche per i pazientissimi del Nazareno.
Mentre tutto il mondo della sinistra, specie quello più a sinistra del Pd, sta mostrando con il No di non poterne più dell’antipolitica grillina, Bersani ancora insiste e va avanti da solo, senza nemmeno il consenso della figlia. Ed è una cosa su cui dovrebbe riflettere, uno come lui.